Simone Lenzi: di cosa parliamo quando parliamo di canzoni d'amore

Simone Lenzi dei Virginiana Miller ha da poco pubblicato il suo nuovo libro "Per il verso giusto": l'abbiamo intervistato per parlare di canzoni

A fine giugno è uscito “Per il verso giusto”, il nuovo libro di Simone Lenzi. Dopo tre romanzi, il leader dei Virginiana Miller questa volta si è dedicato a un saggio dove analizza e racconta l’arte dello scrivere canzoni. Abbiamo colto l’occasione per fare una lunga chiacchierata dedicata ai songwriter - italiani e no - e gli abbiamo chiesto di compilare una top 5 delle canzoni d’amore più belle di sempre. 

A prescindere dal fatto che sei del mestiere, cosa ti affascina di più dello scrivere canzoni?
La cosa che mi ha sempre affascinato, fin da quando ero piccolo, era che le canzoni fossero dei marchingegni in grado di dirti un sacco di cose e, soprattutto, di farti provare un sacco di cose, il tutto in meno di tre minuti.

È stato un lavoro pesante scrivere questo libro?
No, anzi, per me è stato molto divertente. Mi ha dato l’occasione di riflettere su qualcosa che per me era famigliare. Io sono cresciuto con mia nonna e mia zia che cantavano Celentano in cucina, da allora credo di non aver mai smesso di ascoltare canzoni.

Perché affrontare la musica leggera con un linguaggio così serioso, quasi accademico?
Io ho cercato di prendere l’argomento dal verso che si prendono le cose serie e le canzoni, per me, sono cose serie. Bada bene, lo sono proprio perché sono leggere: la leggerezza implica serietà, altrimenti è frivolezza.

Il fatto che sia importante affrontare l’argomento l’hanno dimostrato decenni di studi sulla popular music, a te personalmente perché interessava così tanto?
Ma perché, molto semplicemente, può aiutarti a parlarne meglio. Davanti ad un’esperienza estetica che ti riguarda davvero, che ti prende, che ti emoziona, che è importante per te, sarebbe bello avere degli strumenti che ti aiutino a rispondere alla domanda: "perché la cosa che mi piace, mi piace?"

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Secondo il tuo libro al centro di tutto c’è l’unione di due elementi: la musica e le parole. È davvero la cosa più importante in assoluto in una canzone?
Be', sì. Pensa a tutta la polemica sull’assegnazione del Nobel per la letteratura a Dylan. Dobbiamo esserne contenti di questo premio? La prima risposta è "sicuramente sì”, ma la seconda potrebbe essere “anche no”. La canzone non è una poesia messa in musica, è un’unità di due elementi in cui il tutto è più della somma delle parti e in cui testo e musica si donano significato a vicenda.

Nel libro scrivi che ogni canzone è una canzone d’amore, ne vogliamo parlare?
Questa unità tra parole e musica è come una relazione e, come ogni matrimonio che si rispetti, deve essere consumata. Questo avviene grazie alla voce, che è sempre un elemento erotico: ogni canzone è, in tal senso, una canzone d’amore perché presuppone che ci sia sempre un ascoltatore. Anche se immersa in una folla di 230.000 persone, la canzone si rivolge sempre ad una persona sola, è da qui che nasce il legame erotico che ti dicevo.

 

È difficile scrivere una canzone d’amore?
È difficilissimo, è la cosa più difficile del mondo. 

C’è anche chi sostiene che, essendo in pratica l’unico argomento disponibile, non sia poi così difficile.
Scrivere canzoni d’amore brutte è facilissimo, scriverne di bellissime è difficile (ride). Non so a quali dei miei colleghi l’hai chiesto, ma direi che in pochi sono riusciti a scrivere “Il cielo in una stanza”, anzi, ce n'è solo uno.

Nel libro dici che tutto il significato di quella canzone è racchiuso nel suo “soffitto viola”, vogliamo approfondire?
È una canzone che canta l’amore profano come se fosse sacro. Esiste un inconscio musicale collettivo: al di là delle canzoni e della musica che conosci, hai una sapienza, anche inconsapevole, della musica che ti è girata intorno. Quella è una canzone scritta su una melodia gregoriana ma che canta l’amore carnale. È questo il vero elemento affascinante del pezzo e il "soffitto viola", tipico delle camere d’albergo ad ore, ti rivela che tipo di relazione c’era tra i due protagonisti.

Mi fai un altro esempio dove poche parole diventano la chiave di lettura dell’intero pezzo?
Prendi “E se domani” di Mina, è chiaro che il punctum di quella canzone è il “…e sottolineo se”. In Inghilterra c’è un termine preciso quando si analizza una canzone: hook, il gancio. Per gli studiosi di popular music l'hook è quella cosa che, in qualche modo, ti prende. Io nel libro ho cercato di farne a meno perché lo trovo un po’ pericoloso come termine, perché sembra sempre che la canzone si risolva davvero in un unico punto e, a mio avviso, spesso non è così. A prescindere da questo, rimane sicuramente un elemento di riflessione interessante. 

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In Italia abbiamo un problema con la musica leggera?
Secondo me in Italia abbiamo un problema storico che è quello della distinzione tra cultura alta e bassa. È una divisione netta che nasce anche dall’origine stessa della nostra lingua che, se ci pensi, davvero è stata inventata dagli intellettuali e dai poeti. Detto questo, direi che, da Umberto Eco in avanti, possiamo affermare che sia ormai un problema abbastanza superato.

Nel nostro DNA abbiamo il melodramma e il bel canto, è un bene o un male?
Secondo me avere una tradizione, qualunque essa sia, è un bene, se poi uno è anche in grado di farci i conti è ancora meglio. Senza la tradizione non c’è la possibilità di espressione.

La tradizione non diventa un peso quando si tenta di svecchiare il nostro songwriting?
Mah, forse lo era anni fa. È stato molto difficile negli anni in cui ho iniziato a suonare e cantare io: i Virginana Miller, come i Marlene Kuntz, gli Afterhours, i Perturbazione e altri ancora, hanno dovuto affrontare una fase piuttosto schizofrenica dove tu ascoltavi sia i Cure che De Gregori e, in qualche modo, volevi rappresentarli entrambi. Secondo me questa fase, poi, l’abbiamo superata: se io ascolto l’ultimo disco di Bruonori sento una voce perfettamente in linea con la tradizione cantautorale italiana ma che, allo stesso tempo, sa tener conto di tutto quello che è successo nella musica internazionale degli ultimi 20 anni.

Analizzando il ruolo della voce nelle canzoni tu prendi ad esempio il modo di cantare del primo Paolo Conte, che sembra distaccato ma in realtà è decisamente teatrale, fino ad arrivare alla voce robotica usata dai Radiohead in “Ok Computer”. In questo range di sfumature, uno come Max Collini dove lo posizioneresti?
(ride) È una bella domanda, Max lo metto a pieno titolo tra i cantanti perché, insomma, quel suo modo porsi è tutt’altro che neutro. Lui ha quella sfumatura particolare, quasi antipatica, che rende la sua voce assolutamente affascinante. Buona parte del merito della riuscita delle sue canzoni va proprio a come usa voce.

La qualità delle canzoni può diventare persino una sorta di termometro per misurare lo stato di salute della democrazia in cui viviamo”. Un po’ indignata come frase, no?
(ride) No, dai. Quello che voglio dire è che la canzone è la forma artistica più consona alla democrazia, perché in qualche modo mette d’accordo sia l’attitudine individualistica-romantica dell’affermazione dell’individuo ma, allo stesso tempo, rimescola modelli che sono popolari e che tutti conoscono. Racconta l’individuo ma deve sempre tenere conto della società che gli sta attorno, e questo dovrebbe essere una delle massime aspirazioni della democrazia. Dove c’è una tradizione democratica, probabilmente, ci sono anche delle grandi canzoni. Gli Stati Uniti, almeno fino ad oggi, sono stati una vera democrazia e infatti hanno avuto delle grandi canzoni.

Tu affermi che ogni canzone è una canzone politica perché, sostanzialmente, “è di tutti”. Per spiegarlo citi due lettere scritte prima di un suicidio, quella di Luigi Tenco e quella di Kurt Cobain.
Esattamente. 

In quella di Cobain sottolinei che per lui una delle cose più importanti fosse non prendere in giro il pubblico. La canzone politica è tale solo se è onesta?
Deve essere onesta non tanto in quello che dice ma dal punto di vista estetico. Le canzoni sono politiche anche quando non si impegnano. Come ti accennavo prima, i songwriter maneggiano sempre qualcosa che riguarda la polis, la società, una pluralità di modelli che sono condivisi da tutti. Se io scrivo una canzone rap, utilizzo dei modelli che conoscono tutti e il mio risultato verrà giudicato a partire da quei modelli. Poi io posso piegarli, cambiarli, sfumarli, l’originalità consiste proprio in questo: prendere un modello e riproporlo variandolo in base al proprio gusto.

Per molti la canzone politica è appunto quella impegnata, da Giovanna Marini fino ai Modena City Ramblers. Questo tipo di canzone, in realtà, è praticamente sparita, perché?
Per me una cantante impegnata e politica ora è Beyoncè e le differenze con Giovanna Marini credo siano evidenti (ride). A mio avviso è anche un bene che tra le frecce dell’arco del pop internazionale ci sia la possibilità di veicolare dei messaggi. È finito il momento storico del cantautore impegnato e, molto semplicemente, questa funzione può essere tranquillamente svolta anche dal pop. 

In tutto il libro hai deciso di non citare mai i social network, che oggi sono sicuramente uno dei mezzi principali per veicolare la musica. A tuo avviso aumentano o sviliscono la valenza politica di una canzone?
Detto molto francamente, per me sviliscono un po’ tutto.

C’è da dire che spesso sono fondamentali nel raccontare la personalità di un artista, c’è chi sostiene che siano addirittura stati utili a far capire canzoni in dialetto stretto a gente di tutt’altre regioni. Che ne pensi?
Non sto dicendo che non ci sia una portata politica in tutto questo, è chiaro. Io non ne ho parlato nel libro perché non mi è sembrato che i social avessero aggiunto qualcosa in più alle canzoni, anzi forse qualcosa gliel'hanno tolto. E come con lo psicanalista, funziona solo se lo paghi, se ti ascolta gratis non funziona, non chiedermi perché ma è così. Io credo che l’assoluta gratuità e la disponibilità immediata di tutto, alla fine faccia sì che quel tutto abbia un po’ meno valore. E questo riguarda la canzone, come tutto il resto.

Ultima domanda, ci consigli un libro per chi non ha mai studiato la popular music ma vuole, in qualche modo, iniziare ad approcciarla?
Gianfranco Salvatore, “Mogol-Battisti - L’alchimia del verso cantato”. È un testo eccezionale. 

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L'articolo Simone Lenzi: di cosa parliamo quando parliamo di canzoni d'amore di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2017-07-12 13:22:00

COMMENTI (1)

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  • MaxGit7 anni faRispondi

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