Incontro Sasio e Giuseppe dei Sula Ventrebianco (rispettivamente voce principale e chitarra e chitarra e cori) in un bar di San Martino, zona collinare di Napoli da cui è possibile avere uno sguardo su buona parte della città, e sul Vesuvio. "Più Niente" è il loro ultimo disco, in uscita il 10 marzo per Ikebana Records e i ragazzi si dicono molto soddisfatti del risultato ottenuto. È stato sorprendente come solo parlando di un disco siano venuti fuori Batman, Mel Gibson e statue di ghiaccio giganti.
Com’è stato il lavoro in studio per questo disco? Siete arrivati con le idee già definite o le avete affinate in studio affiancati da un produttore?
Giuseppe: Come in tutti i nostri lavori precedenti non abbiamo avuto un produttore artistico che ci aiutasse con l’arrangiamento dei brani: abbiamo fatto tutto da noi. La differenza rispetto al passato, ad esempio a quanto accaduto con “Furente”, è stata, però, che abbiamo avuto molto più tempo per lavorare sulle canzoni. Con “Furente”, infatti, ci siamo ritrovati a chiudere tutti i brani in poco più di due mesi, dal momento che il tour del disco ancora precedente (“Via la faccia”) si era protratto molto a lungo. Stavolta, invece, abbiamo iniziato a lavorare ai brani a febbraio 2016, e il lavoro in sala è durato fino a fine settembre. Questo per dirti che questo tempo in più passato in sala a provare è stato fondamentale per arrivare in studio con tutte le idee di canzoni già ben definite.
È ormai arcinoto che ha messo mano al vostro disco Alberto Ferrari, mixandolo. Com’è nato il contatto?
Giuseppe: Il contatto con Alberto è stato la Fleisch Agency, l’ufficio stampa che cura sia noi che loro. Già in passato i Verdena avevano ascoltato le nostre produzioni e la stessa cosa è successa anche con “Più Niente”. Anche questa volta Alberto ha avuto i provini dei nostri brani e ne è rimasto molto positivamente colpito. A questo punto c’è stata la proposta da parte nostra di lavorare con noi ai mix del disco.
Com’è stato lavorare con lui?
Giuseppe: Molto stimolante. Abbiamo trovato in lui una persona grandiosa sia sotto il punto di vista umano che professionale. Quando siamo arrivati in studio conosceva già alla perfezione non solo i brani ma anche le diverse versioni che avevamo di ognuno, tutte le sfumature, segno che era già entrato con la testa nel nostro lavoro; in più c’è stato un dialogo molto diretto sul disco, sul colore che gli si voleva dare e anche su qualche dettaglio stilistico, in poche parole ci ha fatto sentire molto a nostro agio. La cosa che però forse ci ha colpito di più è stata che essendo stato il mix fatto a distanza, ci inviavamo le canzoni tramite WeTransfer e per noi i mix erano pronti già alla prima. Era anzi lui a voler migliorare e approfondire il lavoro su ogni canzone. E ciò mi ha fatto capire il mood della situazione.
E cosa avete imparato da questa collaborazione?
Giuseppe: Diciamo che più che aver imparato qualcosa, siamo rimasti colpiti dal suo spirito e dall’atmosfera che si respira in casa Ferrari. Per dirti, quando siamo arrivati per la prima volta in studio da lui, stava suonando all’impazzata con suo fratello Luca, cosa che ci ha fatto subito entrare nel giusto mood e che ci ha fatto capire con chi avessimo a che fare.
Chi di voi scrive i brani e come nascono abitualmente? C’è un’idea generale che viene sviluppata insieme o il lavoro è individuale?
Giuseppe: Premettiamo che abbiamo sempre lavorato in maniera molto istintiva e seguendo diverse modalità di lavoro. Di base, comunque, Sasio porta in sala un riff o comunque una linea musicale con una melodia vocale che quasi mai ha un testo già definito. Utilizza per lo più un fake english che però possa dare un’idea, un suono giusto. Successivamente queste idee prendono forma insieme in sala con l’intervento di tutti noi. Altre volte, invece, come è stato ad esempio per Batticarne in questo disco, i brani nascono direttamente jammando. Quello che non è mai successo è che scrivessimo qualcosa a tavolino, non appartiene al nostro approccio alla musica, un comandamento non scritto di noi Sula.
Doveste descriverlo a qualcuno, di cosa direste che parla “Più Niente”?
Sasio: Contrariamente a quanto può sembrare, “Più Niente” non ha nulla a che vedere con qualcosa di distruttivo, col fatto che non ci sia più niente da fare, con l’arrendersi. In realtà è giusto l’opposto. Con questo disco vogliamo dire che siamo ancora pronti a godere di tutto ciò che abbiamo davanti finché possiamo e che vogliamo amare tutti coloro che ci amano finché sono presenti nelle nostre vite. Ci è piaciuto molto, in questo senso, usare il ghiaccio come metafora. Il ghiaccio è l’elemento perfetto donatoci da madre natura per farci capire che esso, come tutto ciò che abbiamo, cambia forma, che ogni cosa, se non ce ne si prende cura, può deteriorarsi, venire a mancare. È quindi, come ti ho spiegato prima, un invito a vivere ciò che ci circonda senza freni, finché ce ne è data la possibilità.
Giuseppe: Questo disco ha visto crearsi vari collegamenti anche un po’ casuali che ci hanno poi portato a scegliere un titolo che avesse a che fare con tutti questi. Inizio col dire che il lavoro sul disco è cominciato con “Diamante e Amore” e “Odio”, brano, quest’ultimo, che contiene una frase che piace molto a tutti noi: “su di un grande cuore spietato come un ghiaccio”. Pensando all’idea di ghiaccio, di cuore, di luogo in cui ci si sente al sicuro, ci è venuta naturale in testa, come ha detto Sasio, l’immagine di qualcosa di cui si deve avere cura dal momento che tutto, in un modo o nell’altro, si usura e prima o poi svanisce. Non rimane più niente. Successivamente abbiamo avuto un incontro con un artista che era nostro fan Domenico Mazzella di Regnella e, conoscendolo meglio, abbiamo scoperto come lavorasse il ghiaccio e come con lo zio Amelio realizzasse vere e proprie sculture. Sono stati proprio loro a realizzare la statua raffigurata sulla copertina di “Più Niente”, statua che esiste e posso garantire sia enorme, è più alta di due metri! In ogni modo, abbiamo ragionato sul fatto che anche questa è un’arte del momento: se non si ha modo di conservare questi lavori e di prendersene cura, ovviamente, si dissolvono in poco tempo. Tutto ciò si ricollega anche al discorso dell’analogico, metodo di registrazione su bobine a nastro che abbiamo utilizzato per la realizzazione del disco. Anche in questo caso, è stata ricorrente la situazione precedentemente descritta, della particolare cura in più che bisogna avere nelle registrazioni di questo tipo, rispetto a quelle fatte in digitale. Preso atto di tutte queste situazioni che richiamavano il concetto di cura, in contrapposizione allo svanire di qualcosa, abbiamo scelto come titolo “Più Niente”.
Tra tutte le canzoni, ce ne sono alcune che mi hanno incuriosito più di altre. Partiamo da “Arkam Asylum”, parlamene un po’: da dove hai tratto l’ispirazione e di cosa ci parli?
Sasio: Con questo brano ho voluto raccontare la rivolta di un “pazzo” rinchiuso ad Arkam Asylum (il manicomio di Gotham City, la città di Batman ndr). Sono partito dal fatto che non ci può essere una univocità nello stabilire chi è pazzo o meno. Nella pratica, chi è che lo dice? Noi? La società? Il luogo comune? E da cosa dipende e quali sono i fattori che rendono qualcuno pazzo agli occhi degli altri? Da qui ho deciso di far esplodere questo pazzo, che si rivolta, fa un casino infernale, salta e balla sulla testa di tutti e che, stanco di queste etichettature, dichiara urlando a tutti di essere l’essere più normale dell’universo.
Anche “Ade a te” ha un titolo intrigante.
Sasio: Ti ringrazio (ride). Ade a te augura a chi augura il male a me, il doppio se non il triplo del male da questi augurato. Quando dico “non dire mai ciò che pensi” entra in ballo quella che è un po’ la vocina che ci parla nell’orecchio, il grillo parlante che lavora per salvarci la pelle e che ci invita a non dire tutto ciò che pensiamo e riteniamo giusto dal momento che nella società attuale essere troppo diversi non va troppo di moda. In un secondo momento della canzone, però, si capisce che quando un leone è ingabbiato troppo a lungo, si sa che cercherà in tutti i modi di sfuggire al suo carcere in qualche modo, e quando ci riuscirà sarà guerra e inferno. Con tutto ciò voglio semplicemente dire che essendo noi esseri umani soggetti al tempo, alla morte, dovremmo sempre approfittare del tempo che ci è dato per dire la nostra.
E invece "Diamante"?
Sasio: Come sappiamo il diamante è una delle pietre più preziose e amate, ma al tempo stesso più insanguinate che si possano trovare in natura. Ho sempre pensato che dietro la sua magnificenza, questa pietra abbia un’anima pervasa dalla delusione e dall’amarezza delle persone che la ricercano e che, di base, credono che l’apparenza sia qualcosa di essenziale per farsi spazio in questo mondo caotico e spietato. Il diamante, in ogni caso, ci assomiglia: anche noi siamo preziosi, anche noi rendiamo felici chi ci circonda, e anche noi che crediamo di essere anime tanto pure, alla fine dovremo fare i conti con noi stessi e col fatto che saremo pervasi dalla solitudine e dai sensi di colpa. Ecco io mi immagino questo diamante in un salone scintillante di nobili aristocratici, solo, dimenticato a terra come siamo stessi lo saremo.
Ascoltando le canzoni ho avvertito in generale un certo senso di “spazio”. Si parla di allontanamenti, avvicinamenti e più in generale c’è una certa irrequietezza, come un non riuscire a star fermi. È una percezione giusta o comunque qualcosa di voluto?
Sasio: Sì, per quanto riguarda l’irrequietezza non ci sono dubbi. È un nostro marchio ed è qualcosa che sta alla base dei Sula Ventrebianco. Senza queste sensazioni probabilmente sarei un Nek o un Biagio Antonacci, quindi va bene così. Poggiamo le nostre note su una superficie fatta di queste cose.
Ed è qualcosa che ha a che fare con lo spirito con cui avete affrontato la scrittura dei testi?
Sasio: Direi di sì. Di sicuro "Più Niente" si prende meno sul serio ed è uno, anzi due o tre passi indietro, all’immediatezza del nostro primo lavoro. È un album che vuole essere più libero e veloce rispetto al passato. Ma innanzitutto vuole essere più “vaffanculo”. (momento di silenzio). Non a te ovviamente. (si ride)
In più, da un lato si racconta di percezioni piuttosto intime, c’è la sensazione che vi siate messi a nudo; dall’altro invece si avverte un senso di pazzia, emarginazione, e di narrazione “dalla parte dei più deboli”. Da cosa deriva ciò?
Sasio: Sì questo senza dubbio. Ho sentito la necessità di chiudermi e di raggiungere il me stesso di una volta, giusto per farci due chiacchiere e dirgli un paio di cose. Spesso chiedergli perché. (pensa a quello che ha appena detto). Vabbè. “Avrei qualcosa da chiarire con me” come dico in Wormhole. Può essere vero anche quello che hai detto dopo, sul fatto di un racconto dei più deboli. Credo che dal complesso dei testi di questo disco si evinca anche una certa emotività ed introspezione. Alla fine nonostante i nostri fuzz e le nostre distorsioni…SIAMO DOLCI, MOLTO CUCCIOLI! E poi a me piace molto Braveheart. Quel film mi ha molto formato per quel desiderio di libertà e la lotta nonostante l’inferiorità numerica. In quel caso erano loro i deboli e io mi sono sempre schierato con loro, mi sentivo quasi un seguace di William Wallace... GRAZIE MEL GIBSON!
Avendovi già visti live posso dire che siete veramente devastanti, un vero e proprio muro di suono. Possiamo aspettarci qualcosa di nuovo dal prossimo tour?
Sasio: La formula sarà in sostanza la stessa, anche se è cambiato qualche interprete. Abbiamo Caterina Bianco che sarà parte integrante del gruppo sul palco che si occuperà dei violini, synth e anche alcuni cori. Come fonico avremo invece Claudio Auletta Gambilongo. Per quanto riguarda il tour, in parte è già online, il resto verrà annunciato dopo l’uscita ufficiale del disco che è prevista per il 10 marzo.
A proposito di devastazione, siete consapevoli di essere tra le ultime/uniche band in Italia di un certo livello a scrivere ancora riff? Che piega pensate abbia preso il rock nel nostro paese?
Giuseppe: Il rock in Italia in questo momento sotto il punto di vista della diffusione non se la passa benissimo. Come possiamo vedere tutti, quello che sta andando forte è il cantautorato che però secondo noi prende una veste nuova: ha una matrice nazionale che si arricchisce poi di sfumature regionali.
A cosa pensi sia dovuto?
Giuseppe: Questa maggiore attenzione può essere principalmente legata a una maggiore forza di sponsorizzazione da parte di etichette.
Pensi ci possa essere in qualche modo un cambio di rotta e che major e grandi mezzi di comunicazione possano riscoprire il rock?
Giuseppe: Questo non posso saperlo ma sono convinto che se si dovesse risvegliare qualcuno che facesse passare rock in radio, le cose non andrebbero così male, gli ascolti non calerebbero né accadrebbe nulla di negativo, anzi. Al di là dei generi che hanno preso piede ultimamente, credo che il rock sia un po’ come il Vesuvio, un vulcano che dorme. Nonostante tutto, però, è sempre lì ed ed è sempre attivo, anche se quiescente. Dovesse esplodere di nuovo, e quindi dovesse il rock avere maggiore visibilità, credo possa funzionare a gonfie vele dal momento che ci sono molte band che hanno molte cose da dire. Questo fa sì che nel sottobosco della musica italiana, ci sia sempre uno zoccolo duro di amanti e fruitori del genere. Stando così le cose quello che si spera è che qualcuno prima o poi si accorga di questa cosa. È per questo bisogna sempre stare sul pezzo.
Anche a livello mondiale sembra che le chitarre si stiano dimenticando...
Giuseppe: È un po’ tutto in scala. Anche a quei livelli abbiamo ovviamente gli esempi di gruppi definibili rock che girano, fanno gli stadi, sono in classifica eccetera, però si contano sulle dita magari non di una mano ma di un paio di mani. La maggior parte di ciò che è in classifica invece è sulle dita di molte altre mani in più, ben lontane dalla definizione di rock.
Essendo anche io di Napoli e conoscendo più o meno le dinamiche cittadine, chiedo a voi un commento sull’attuale scena napoletana. La frequentate? Vi sentite rappresentati o avete commenti a riguardo?
Sasio: Non la frequento, non mi interessa, anche se ci sono, o almeno c’erano gruppi interessanti. Tutto ciò che va di moda oggi a Napoli non mi piace tanto, quindi me ne tengo fuori. Non faccio nomi delle realtà che non mi piacciono, ma sono cose che non condivido.
Giuseppe: Io capovolgerei la questione: ognuno rappresenta quello che crea, quindi più che parlare di una scena che ci rappresenti parlerei di gruppi che rappresentano qualcosa e noi nel nostro piccolo rappresentiamo quello zoccolo duro di pubblico di cui parlavamo prima. Per quanto riguarda me personalmente, non frequento molto la scena napoletana, non mi stimola.
Quello che posso dire è che mentre altri gruppi napoletani come ad esempio i Foja, sono più appartenenti alla realtà prettamente napoletana, cosa dovuta ovviamente anche dovuto alla lingua, voi avete un respiro più nazionale, come a dire: partiamo da Napoli ma non è quello il nostro obiettivo, o meglio, non solo.
Giuseppe: Sì in effetti questa è forse una cosa che abbiamo sempre pensato inconsciamente e che abbiamo riflesso sui tour, a partire dai primissimi che abbiamo fatto. Il ragionamento era: certo siamo di Napoli e qui faremo la serata di presentazione, ma il nostro target è sempre stato portare il progetto in tutta Italia senza limitarci alla nostra città. È un’esigenza che ci ha accompagnato fin da subito.
È certo è che Napoli, tralasciando qualche eccezione, è quasi inesistente nella mappa della musica italiana cantata in italiano (o in inglese). Credete che questa provenienza possa creare pregiudizi sull’ascolto della vostra musica?
Giuseppe: Pregiudizi e ostacoli mai. Magari avvertiamo il fatto di non appartenere a una scena musicale che è più presente al nord che al sud ma questo è un problema di natura più geografica che “razziale”. In ogni caso cerchiamo di colmare questa distanza con i tour.
Come lavora la vostra etichetta in questo senso?
Giuseppe: Quello che possiamo dirti è che tra noi Sula e Ikebana Records c’è stata una crescita parallela, siamo cresciuti insieme ed il nostro è stato un lavoro congiunto che ha portato a un miglioramento di tutta la gestione del progetto. Questa volta, in più, ci seguono anche come booking. È inoltre fuori dubbio che il lavoro lavoro e la totale libertà che ci hanno sempre lasciato dal punto di vista artistico è stato di grande aiuto per la creazione e lo sviluppo di un grande rapporto tra noi.
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L'articolo Sula Ventrebianco - Vivere senza freni, finché si può di Francesco Gallinoro è apparso su Rockit.it il 2017-03-07 17:03:00
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