(I Father Murphy - Foto da internet)
Sghembi, surreali al limite del misticismo, autoironici pur non dimenticando il gusto per la provocazione. I Father Murphy riescono ad avere un'attitudine sperimentale e trasmettere ugualmente un'emotività calda. Un cuore che, a volte, lascia spazio al cervello. Sandro Giorello ha intervistato Federico Federici: si parla della storia del gruppo, della sua Madcap Collective, delle sue leggende, di viaggi all'estero e molto molto altro.
Descrivimi la storia recente dei Father Murphy: com’è stato il passaggio da “Six musicians getting unknown” (2006) a “I saw seven horns rising from the sea, when a rooster sang for the third time” (2007)? Cosa prevedi per il vostro futuro più prossimo?
Prima dell’uscita di “Six musicians…” non eravamo un gruppo vero: io ho vissuto per 2 anni negli Stati Uniti, Chiara era in Cina e Vittorio viveva Italia. Per un periodo di quasi tre mesi siamo riusciti a stare tutti e tre insieme negli Stati Uniti. Poi io e Chiara ci siamo trasferiti a Berlino. Tutti questi spostamenti hanno fatto sì che Father Murphy fosse un progetto “per corrispondenza”: ognuno spediva i pezzi agli altri e lavoravamo individualmente. E poi non c’era una formazione fissa: abbiamo fatto concerti in 9 e altri solo in 2 o io da solo. Il primo concerto in 3 è stato l’1 dicembre 2004 al Nuttyguana di Trieste del buon Lorenzo Fragiacomo. Lì ci siamo sentiti i veri destinatari di questa specie di missione. “Six musicians…” è l’ultima fase di questo periodo: il modo in cui è stato registrato e il modo in cui è stato arrangiato rispecchia già la dottrina del 3 (siccome i tre fondatori della Madcap Collective distano ognuno dall’altro di tre anni d’età, il 3 è diventato un simbolo ricorrente per tutto il collettivo, senza contare le innumerevoli connessioni con la cabala, NdR) ma ci sono ancora canzoni di anni prima, una mi sembra addirittura del ‘98. Quando è arrivato il momento di registrare “I saw…” avevamo alle spalle un buon numero di concerti in trio. Abbiamo lavorato diversamente sulle canzoni perché erano brani già sperimentati dal vivo, è stata una cosa nuova per noi.
Il presente è: abbiamo chiuso con il passato. Mi viene in mente Cobain: prima di fare “In Utero” era felicissimo perché con “Incesticide” si era tolto dalle palle tutte le canzoni accumulate negli anni e finalmente poteva dedicarsi ad un disco nuovo. Per noi è lo stesso, io non voglio più utilizzare la chitarra acustica, limitare l’uso della viola e cercare di lavorare molto sulle tre voci.
Quali sono i padri putativi dei Father Murphy?
Ti posso rispondere secondo il mio parere personale. La primissima persona è Kurt Cobain. In un secondo momento Syd Barrett. Ma anche la religione, la religiosità, meglio, il sacro... cantavo nel coro della chiesa, sono cose che mi hanno sempre intrigato. E poi mio padre, lui cantava in un gruppo negli anni 60, ma non suonava nessun strumento. Da un certo punto di vista mi piaceva l’idea di poterlo completare e allo stesso momento superare. Poi, di certo, Lennon e i Beatles. Poi Burroughs e una concezione diversa di intendere le cose: essere tutto e niente, poter fare le cose a seconda del momento e senza nomi troppo definiti. Poi il punk, che io identifico con la figura di John Lydon, penso sia il mio cantante preferito. E poi gli OS Mutantes, i Pil, i This Heat, ma sì, anche i Joy Division. Chiara e Vittorio aggiungerebbero di certo gli Smiths e i Beach Boys.
Ho letto parecchie vostre interviste e la parola che usi più spesso è “leggenda” e su Rockit, tra gli ultimi racconti pubblicati nella vostra scheda, c’è “La leggenda di Father Murphy: terzo capitolo". Quanto serve avere delle leggende a cui appoggiarsi e quanto serve essere leggendari?
Per i Father Murphy la leggenda non è soltanto una cornice ma anche un modo per tenere incollati tutti quanti i pezzi. Ci sono un sacco di riferimenti e di coincidenze. In questo senso il lavoro assume… diventa “comune” e parte di una memoria. Per me la leggenda è un qualcosa che rimane nel tempo, poi ognuno può prenderla e modificarla come vuole: c’è chi la considera una favoletta, chi dà ascolto solo alla morale finale, chi la prende come oro colato. Dipende dal livello di autoironia che ognuno ha. Per me essere leggendario non è diventare l’eroe ma essere una pedina all’interno della leggenda. Non è tanto importante la figura di Ercole quanto la leggendarietà della sua impresa, che sia stato Ercole o un altro eroe a fare le dodici fatiche non importa, conta che le fatiche siano state tramandate e che abbiano un senso comune ancora oggi. Tutto questo io lo riconduco alla paura delle morte, la leggenda non può certo sconfiggerla ma ti può aiutare a gestirla.
C’è una certa aurea magica intorno ai Father Murphy: le vostre foto hanno sempre un che di mistico e nelle interviste parlate spesso di religione o di altri argomenti decisamente distanti dalla vita di tutti i giorni. In realtà immagino che voi siate tre persone fondamentalmente “normali”, non così diverse da molte altre che hanno un gruppo o gestiscono un’etichetta. Qual è l’aspetto più pratico, o se volete “comune”, dei Father Murphy?
Hai ragione, siamo tre persone normalissime. E’ un po’ difficile rispondere perché effettivamente non me l’hanno mai fatta questa domanda. Fondamentalmente la concretezza dei Father Murphy è nei concerti e nella musica. Nel fatto che ci sia un discorso… io penso che si basi sul fatto che non c’è una sola persona dietro al progetto. Tutti e tre siamo persone diverse, ognuno con il proprio mondo. Poi, e spero di non risultare troppo fumoso, tutti e tre crediamo nelle stesse cose: non sono proprio dei dogmi quanto dei punti molto chiari a cui riferirci.
Come scrivete le vostre canzoni?
Solitamente parto io, Chiara e Vittorio si avvicinano, prendono cosa gli serve, lo fanno loro e mi dicono cosa cambiare. Chi capisce per primo cosa dovrà diventare il pezzo giuda gli altri.
Più cervello o più cuore?
Ti risponderei più cuore, nei testi non si è mai fatto alcun tipo di ricerca. A noi interessa che la canzone suoni bene: quando partiamo con un motivetto nuovo lo cantiamo in una lingua inventata e poi cerchiamo di capire quali suoni in inglese possano essere adatti. Non è cut up. Quando eravamo in tour con i Gowns loro ci avevano detto che gli piacevano i nostri testi perché suonavano antichi e allo stesso tempo dada. Li avevamo ringraziati ma gli avevamo spiegato che, in realtà, non erano nulla di intellettuale. Ecco… l’unica cosa intellettuale, più vicina al cervello, sono le citazioni, le ricorrenze e le coincidenze che puoi trovare nei testi e nella musica. E’ un cuore che ogni tanto concede spazio al cervello.
Vi siete mai posti il problema di essere comunicativi?
Fino a “Six musician…” non ce l’eravamo mai posto. Abbiamo sempre pensato di essere un gruppo super accessibile, sia per la melodia delle canzoni sia perché utilizzavamo strumenti abbastanza classici. Dopo “Six musician…” abbiamo iniziato a notare un certo smarrimento nel pubblico. Adesso, nei pezzi nuovi, ci sono dei testi più diretti che permettono alla musica di essere meno evocativa e più comunicativa.
Parlerei un po’ del tuo ultimo racconto “Lee, ovvero del suicidio della società civile”, pubblicato lo scorso luglio da St.Louis & Lawrence Boooks. Il protagonista vuole suicidarsi buttandosi dalla finestra del suo palazzo ma non lo fa con un unico gesto impulsivo, procede quasi metodicamente per tentativi: ogni giorno sceglie un piano più alto e poi annota gli effetti della caduta. Se il titolo parla di una pluralità – la società civile – perché descrivere i gesti di un singolo individuo?
Quello è il primo capitolo di un libro e il libro è la prima parte di una trilogia. E’ vero, il primo titolo si riferisce ad una collettività ma in realtà parla di tentativi di un singolo individuo. Quello che si scoprirà nei capitoli successivi è che il protagonista sta facendo queste prove per capire se può essere un esempio per il mondo. La differenza dal sacrificio cristiano o più in generale religioso, il martirio, le gesta iniziali d’esempio, è che lui sperimenta prima su sé stesso e poi, se sarà sicuro di essere nel giusto, diffonderà il messaggio al resto della società. Così il sacrificio individuale diventerà collettivo.
Sei del parere che la razza umana debba estinguersi?
E’ una domanda a cui è difficile rispondere… come persona ti rispondo di no, come cuore intendo. Come cervello… è una delle possibilità.
I continui tentativi di suicidio – lo dici esplicitamente nel racconto – sono per il protagonista un modo per sfidare le proprie paure. La musica in questi casi può aiutare? E se si come? Diventando un palliativo? Uno sfogo? Un megafono utile per comunicare le proprie debolezze agli altri e cercare aiuto?
La musica può essere molte cose. Può essere un palliativo o un mezzo di confronto. Tu puoi dire: “La casa sta bruciando. Che bello! Usciamo e balliamo”. Oppure: “La casa sta bruciando, è un momento triste e dobbiamo concederci di essere tristi”. Bisogna darsi la possibilità di vivere momenti tristi, malinconici, riflessivi, evocativi. Nei confronti delle proprie paure è la stessa cosa: a volte ci si rifugia nella musica per non pensare alle proprie angosce, a volte si richiede l’aiuto della musica proprio per vivere fino in fondo i momenti più tristi. E l’unico modo per non diventare matti o troppo seri è quello di essere molto veloci, fluidi, i movimenti devono diventare talmente rapidi da sembrare surreali.
Le poche volte che ti ho sentito parlare di Treviso non me l’hai mai descritta in maniera entusiastica. Quanto dell’odio verso la tua città c’è nella musica dei Father Murphy?
Non so bene risponderti. Io e Vittorio, quando eravamo più piccoli, avevamo un po’ il problema del gestire la rabbia. Eravamo entrambi grandi fans dei Nirvana e volevamo spaccare tutto ad ogni fine concerto. Non sopportavamo lo schifo che avevamo intorno e distruggere gli strumenti era un modo per sfogarsi. Subito abbiamo avuto dei casini: la seconda volta che l’abbiamo fatto ci hanno citato in giudizio perché avevamo demolito la batteria di un ragazzo, il figlio di un avvocato. Adesso non lo facciamo più, i nostri attuali strumenti sono il frutto di ricerche piuttosto lunghe, saremmo proprio stupidi a rovinarli. Ogni tanto, però, capita ancora che io veda certe luci negli occhi di Vittorio o lui le veda nei miei… distogliamo subito lo sguardo perché sappiamo che potrebbe essere deleterio (ride, NdA). La situazione, comunque, non è cambiata. E non è solo verso Treviso. Treviso è vicina a Venezia. Tutto è laguna, è melmoso. E’ come se il fango di colpo si fosse indurito e le persone fossero rimaste immobilizzate. E la cosa più brutta è che tutti hanno detto: “beh non si sta poi così male”. Hanno iniziato a ragionare come il fango. Treviso è il paradigma delle cose che più odio: il maschilismo, il machismo, chi non sopporta le diversità. A titolo personale sto studiando il nazismo e quando mi guardo intorno mi sembra di rivedere gli stessi atteggiamenti che erano alla base dell’antisemitismo. La differenza è che nel nazismo tutto era concentrato negli stessi anni e contro un unico popolo, qui le cose sono sparse e non si riesce mai ad avere una visione d’insieme. Le varie goccioline non si uniscono mai come succede al cattivo di Terminator 2.
Adesso come adesso non mi sembra che l’odio verso questa città mi influenzi a tal punto da toccare una cosa così bella come la musica. Spero di no, avrebbe vinto il fango.
Parliamo di discografia. Qualche consiglio utile per dar vita a un’etichetta indipendente…
Per prima cosa bisogna capire se si vuole fare un’etichetta con i tutti i crismi, puntare ad avere un ufficio, un legale rappresentante, rapporti contrattuali con gli artisti e, ovviamente, avere degli introiti. Oppure fare quello che stiamo facendo noi con Madcap, ovvero un collettivo di persone che si riconoscono sotto lo stesso marchio e condividono una certa attitudine. Bisogna capire in quanti si è e la propensione di ognuno. Dividere bene i compiti. Capire quanti soldi si hanno da investire e decidere dove investirli. E soprattutto trovare una propria strada, le etichette che mi piacciono di più sono quelle che seguono una linea precisa e dichiarata.
Altro che Cd-r, voi siete ancora per la duplicazione professionale in glass master. E poi predilite il vinile. Scelte un po’ strane in un momento dove tutti sono convinti che la musica non avrà mai più un supporto.
Sono convintissimo sul fatto che il supporto stia per vivere il suo periodo più buio. Ma per supporto mi riferisco al Cd. Il vinile, secondo me, sta per uscire dal medio evo e ritornare verso un bel risorgimento. Ho visto molte etichette importanti come la Sub Pop, o altre di quel livello, che stanno ritornando a stampare in vinile anche le loro uscite più grosse. Per me è importante non essere troppo chiusi nelle proprie convinzioni. Ad esempio, far trovare i nostri dischi anche su iTunes può essere utile. Poi cercare di organizzare meglio le spese: per “Six musicians…” abbiamo stampato 1000 copie, dovessi tornare indietro ne stamperei la metà. E’ meglio avere delle tirature più limitate e rendere più particolare il supporto. Farlo diventare del tutto unico, o quasi. Magari vendere solo i vinili ma con un Cd-r in regalo.
Quando ero più piccolo appoggiavo in tutto e per tutto Albini e le sue idee riguardo all’industria discografica major. Adesso ho un’idea più moderata, penso che la soluzione sia sempre quella di adattarsi alle situazioni avendo però dei chiari punti di riferimento. E contraddirsi quanto basta.
In che paesi esteri avete suonato?
Stati Uniti, Cina, Belgio, Francia, Germania, Solvenia, Grecia, Malta.
Se dovessi dirmi perché è bello suonare fuori dall’Italia?
Ci sono delle tensioni diverse, inizialmente stringi dei rapporti molto forti con le persone che ti sono più vicine e allo stesso tempo diventi più curioso e desideri incontrare sempre nuova gente. Scopri posti che altrimenti non avresti mai visto e ti fai conoscere in zone improbabili che di sicuro non raggiungeresti spedendo dei cd o mandando un paio di mail. Non dico che in Italia sia facile diventare “popolari” ma se uno ci si mette d’impegno può farcela, all’estero è davvero più difficile.
Secondo te c’è il rischio di mitizzare l’estero?
Si, assolutamente. Forse l’esterofilia è radicata nel nostro codice genetico. Sicuramente trattiamo come oro colato qualsiasi cosa venga dall’estero senza preoccuparci di avere uno spessore culturale tutto nostro. Siamo delle banderuole. Un mio amico, tempo fa, mi ha fatto questo esempio: in Italia non abbiamo mai avuto un fenomeno come negli Stati Uniti lo sono stati i Sonic Youth. E’ vero. Da subito si sono creati dei rapporti di adorazione verso l’estero tali che appena un gruppo italiano riusciva ad uscire dai confini nazionali veniva considerato un eroe. Non voglio dire che non sia bello suonare all’estero, ci mancherebbe. Per me, però, è stato stupendo suonare in Puglia. Sarà che vivo a Treviso e per me è più facile organizzare tour in Germania piuttosto che nel sud Italia. E poi te lo dico onestamente: io ho vissuto due anni a New York e dei concerti che ho visto l’80% era merda. I gruppi fighi li ho dovuti cercare.
Invece i gruppi stranieri che vengono a suonare in Italia sono sempre molto validi, ma è un altro discorso. Quella è vera gavetta. Ad esempio, in America è molto più difficile suonare: se sei all’inizio non ti pagano, non ti danno da mangiare, non ti danno da dormire. I gruppi che riescono ad andare avanti hanno davvero le spalle grosse. E quando questi riescono ad organizzare un tour in Italia, con noi che gli diamo da mangiare, da dormire e se prendono poco prendono 250 euro, sono talmente felici che fanno dei concerti da urlo. Noi siamo davvero un po’ un viziatelli. Mi rendo conto di essere abbastanza impopolare ma penso che non abbia alcun senso che un gruppo giovane, dopo appena una decina di concerti e tre recensioni pubblicate, pretenda già 500 euro. Va contro agli altri gruppi che devono suonare, va contro ai locali che con queste spese non riescono a sopravvivere per più di una stagione. Per me la soluzione migliore è prendere soldi in base a quanto pubblico si riesce a portare. Se si facesse così io non prenderei mai un lira (ride, NdA). Ma quando siamo stati in Germania non è andata poi così male, ci sono state serate in cui abbiamo preso 17 euro e altre dove ne abbiamo presi 200. Capisci? A quel punto ha senso sbattersi per organizzare un tour: con un minimo di 4 date hai una buona probabilità di accumulare 6-700 euro, e ti sei tolto le spese.
Ormai avete alle spalle diversi anni di esperienza. Oggi, per i Father Murphy, cosa vuol dire crescere?
Per me crescere vuol dire non aver paura di lasciare le cose a cui si è arrivati, le cose che ti fanno sentire sicuro. Non per essere sempre in balia delle emozioni ma per capire se effettivamente stai facendo quello che vuoi veramente. Permettersi di essere risoluti e gioiosamente estremi. E non vuol dire fare death metal o noise d’improvvisazione, vuol dire non aver paura di deludere nessuno quando decidi di seguire una tua inclinazione o quando ti fermi perché hai capito che non vale la pena proseguire. Credo moltissimo in questo: prima di fare una cosa tutto deve essere perfetto, e per perfetto intendo che deve essere necessario. Ogni cosa ha un suo scopo. E poi riuscire a dire basta. Riuscire a dire: “Abbiamo già detto e fatto tutto quello che era da dire e da fare, adesso ognuno per la sua strada”.
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L'articolo Father Murphy - Telefonica, 11-01-2008 di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2008-01-29 00:00:00
COMMENTI (9)
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Nice site!
Sempre più in alto!!!
:)
vago via
[:
Father Murphy % Madcap Collective perle della musica italiana.
avanti così.
si.
:]
sei troppo anni novanta
:]:[
io quando sento (vedo) nominare kurt cobain mi emoziono.
eh già.
per me sono già 10 punti in più ai father murphy.
:)
quanta lucidità, grande Fred.