È uscito finalmente, dopo 10 anni di attesa. Il disco dei Northpole. Buona occasione per chiacchierare con Paolo Beraldo, voce del gruppo. Perché Rockit vuole vederci chiaro.
Cominciamo dalla copertina: c'è questa bambina che nuota nell'acqua. Come l'avete scelta? Perché?
L'abbiamo scelta all'ultimo momento. Ci pensavamo da mesi e poi abbiamo vista per caso a casa di un'amica i dipinti di una pittrice di Castelfranco, molto giovane, tra l'altro amica di Ale. Andavano a scuola insieme. Alla fine c'è una nuotatrice in copertina come in "Weekender", casualmente. E non c'entra col mio attaccamento personale con l'acqua e il nuoto (ride).
Può ricordare anche la copertina di "Nevermind" dei Nirvana…
È vero, ma quella era una foto e c'erano i soldi. A noi piaceva che ci fossero dei ragazzini in copertina: ci fa ben sperare per il futuro. Sul retro copertina c'è un ragazzetto: e così davanti c'è un femmina e dietro un maschietto. Come noi, che siamo due maschi e due femmine. Ma tieni conto che non è stata scelta per il significato: ci piaceva esteticamente. Il significato lo ha acquistato col tempo, come capita un po' per tutte le cose, per noi…
“England is mine and it owes me a living”: dopo 10 anni, in cui siete stati una band seminale nel Nordest, il primo disco ufficiale. La riparazione di un debito troppo a lungo inevaso?
Il debito era prima di tutto con noi stessi. Questo disco era una cosa che dovevamo a noi e quindi è per noi stessi che ha un significato importante. In 10 anni abbiamo fatto tante cose, ma questa è la prima veramente importante. Poi, se la citazione degli Smiths rievoca l'immaginario che in passato avevamo in Inghilterra, devo dirti che per noi questo disco è completamente italiano, nonostante gli inevitabili riferimenti.
No, era solo nel senso di un debito da saldare nei vostri confronti… Dimmi del disco.
Ci fa guardare in avanti: quando fermi qualcosa che ti ha accompagnato per tanto tempo, è una liberazione. Voglio dire… il fatto stesso di registrare un disco e di poterlo ascoltare, ti dà la misura di aver messo un punto fermo. Sennò continui a portarti avanti le stesse canzoni e le stesse cose che magari potevi lasciarti dietro. Spero di essere stato chiaro… facciamo fatica a parlare di noi, perché ci pare che le canzoni parlino da sé.
Oh, è lo star system: vi ci dovrete abituare. :)
(ride) Se mai facessi parte dello star system, sarei uno di quelli che rifiuta di fare le promozioni…
Dai, facciamo i cattivi. Diciamo quello che dicono quelli che sparlano di voi.
Sì, dai.
"Ah, di nuovo gli Smiths…"
È possibile che ci siano gli Smiths, ma ci sono anche Jeff Buckley e Luigi Tenco, e molte altre cose. Solo che magari si notano gli Smiths perché sono un'influenza ammessa da noi. È inevitabile: li abbiamo ascoltati per più o meno otto anni, ascoltandoli, digerendoli, facendoli nostri. Ovvio che se poi metti su un gruppo non suoni come gli Iron Maiden, ma come gli Smiths. Ma li abbiamo lasciati col tempo, anche se questo non significa che non ci siano reminiscenze. Se abbiamo copiato da qualcuno, allora abbiamo copiato anche da altri. In "Niente mi ricorda di te" il ritornello è battistiano. Ormai le cose che ascoltiamo sono altre.
Come siete arrivati alla scelta dei brani?
In effetti non è stato semplice… Avevamo una rosa di venti canzoni tra cui scegliere. Alcune, che avevano già delle registrazioni, le abbiamo lasciate perdere durante i provini. Altre "vecchie" sono entrate nel cd perché ci crediamo ancora: "Luca Marc", "Non esagerare mai", "La distanza", "Come ogni sera" non abbiamo avuto neanche bisogno di sceglierle.
In studio abbiamo registrato quindici brani. Ascoltandoli, li abbiamo scelti in base alla resa sonora. Sono rimaste fuori anche altre canzoni in cui crediamo, come "Campana a moquette", cosa che ha fatto incazzare Fabio De Min perché era la sua preferita, oltre che una delle nostre preferite. Ma è stato meglio così, sennò l'album veniva troppo lungo. Volevamo che potesse stare sul lato di una cassetta da 90': questo è stato il nostro riferimento.
E poi speriamo nel capitolo due. Canzoni del nostro repertorio non registrate ce ne sono ancora. In questo disco due o tre sono diverse dalle loro versioni recenti; poi "Niente mi ricorda di te" e "Ken star black revolution" sono state composte per questo disco. Quindi ci sono molte differenze stilistiche, anche perché le canzoni sono state composte in periodi diversi.
Sul nostro forum c’è polemica riguardo alla registrazione della batteria, che sarebbe priva dell’usuale “botta” di Erika. Dove sta la verità?
Per noi non esiste la polemica. Forse per chi ci conosce solo per i concerti è più difficile ritrovare quella “botta” di cui parli in un disco registrato in studio dove è difficile ricreare il sound live. Erika stessa ha chiesto di stare dietro per far sentire di più voce e chitarra. E poi se vogliono sentire la botta di Erika che vengano ai concerti. Così, certo, il disco non ha un suono rock anche se ci sono canzoni rock: è un disco più pop per volontà dei produttori. Può essere un po' riduttivo nei nostri confronti: è vero che le parole, la melodia e l'armonia sono pop, ma abbiamo anche un'anima più dura e violenta, meno presente in questo disco. È normale, però.
Gira voce che lo scorso anno foste lì lì per smettere, criminalmente. E invece, “all of a sudden”, sono successe un sacco di cose…
Noi siamo cattivi manager di noi stessi. Non siamo bravi a far sapere agli altri cosa stiamo facendo. Tra 2003 e 2004 non eravamo in giro, ma sempre al lavoro in sala prove, che per noi è il momento più bello. Ma non avere visibilità non significa non continuare a lavorare. Anche adesso, finito di registrare, siamo in sala prove su canzoni nuove.
Come è arrivato a voi L'amico immaginario?
Cristiano Lo Mele dei Perturbazione ci conosceva già da dei provini che per un paio d’anni sono circolati “clandestinamente”. Poi tutto si è un po' mosso dalla puntata di "Eventi pop" per Raidue. Non ci siamo incontrati sul set, ma ci trovavamo nella stessa puntata, registrata a febbraio, credo… A marzo, se non erro, dopo la messa in onda, Cristiano ha contattato telefonicamente Ale. A giugno sono venuti qui a Castelfranco, lui e Maurizio Borgna, a proporci il disco che avrebbe battezzato l'etichetta… e per noi è stato un grande onore. A novembre abbiamo fatto i provini. Poi abbiamo passato dicembre e gennaio a registrare ogni fine settimana.
Com'è stata quest'esperienza dal punto di vista umano?
Bellissima, a parte la difficoltà di andare su e giù. Loro sono tranquilli, artisticamente noi avevamo sempre l'ultima parola: c'era una fiducia reciproca totale. Hanno molto rispetto delle nostre canzoni: e questo è stato il motivo principale per cui abbiamo scelto di fare il disco con loro. Tra noi del gruppo nessuno si è mai imposto sugli altri in modo arrogante, e volevamo ritrovare lo stesso rapporto.
Il disco inizia con “Fanculo lo stile / se hai solo quello / sei solo una bugia”: per me, è incredibilmente bello quest’inizio, con la base ritmica che esplode e quella chitarrina che sembra quella di “Shaft” di Isaac Hayes. Dove sta il vostro stile?
Una volta pensavo che il nostro stile stesse nel non averlo. Quando suoni da tanto tempo non è più come quando hai vent'anni, che ascolti tutti gli stessi dischi, che cerchi di essere come gli altri, una cosa sola: ora ognuno è una persona ben definita. Ognuno nella musica ci mette il proprio stile: Ale è più attento alla melodia, ai dettagli, alla struttura; io a come stupire e coinvolgere. Poi, lo stile non è una cosa che ti scegli. Se lo scegli perché fa figo, sei falso. Ti dirò una cosa un po' cattolica: musicalmente siamo sempre noi stessi.
Perché cattolica?
Mah, sai, come a catechismo: "Sii te stesso".
Dove sta la vostra verità?
Nel fatto che la musica deve piacere a noi. Questo è il nostro metodo di valutazione: per cui solo le cose che sentiamo nostre e genuine le portiamo avanti. Come persone siamo tranquilli. Siamo come le nostre canzoni.
Nel disco c’è anche Fabio De Min dei Non voglio che Clara. Una bella amicizia.
Un'amicizia molto profonda. Ci conosciamo da quando veniva a Castelfranco a studiare. Lui è un musicista incredibile. Ci ha aiutato molto per il live dell'anno scorso al Teatro di Castelfranco. Alcune di quelle cose sono finite nel disco, altre le ha scritte appositamente. Ha lasciato un'impronta importante nel disco. Ci son sempre piaciuti il suo gusto e le cose che scrive: è stato molto naturale portare avanti questo discorso. Poi Fabio ha vissuto per anni con Ale.
Quando cantavamo in inglese una figura così era Mario Pigozzo Favero dei Valentina Dorme. Noi abbiamo sempre avuto un gruppo con cui confrontarci, di cui andare a vedere le prove e che veniva a vedere le nostre prove. Una specie di sfida per scrivere canzoni più belle, senza che ci sia una vera competizione.
Tornando a Fabio, lui conosce cose che noi abbiamo solo in testa e non sappiamo come tirare fuori. Non sappiamo scrivere gli archi e le loro armonizzazioni. E lui è la persona giusta. Ci si trova, si suona, si beve birra e si chiacchiera a manetta. È un amore incondizionato, reciproco.
Trovo che “Luca Marc (La canzone del Piave)” sia una delle canzoni più politiche - e più efficacemente politiche – mai scritte. Estrae da un fatto di cronaca lo spaccato morale di un’intera società e di un’intera epoca. Fanculo gli slogan, direi.
Fede quando ti ha sentito dire questa cosa ha detto: "Ma quale canzone politica? È una canzone sociale!"
Esatto: non voglio dire che sia politica nel senso di sbandieramento di idee, stile "compagni (o camerati, è lo stesso) armiamoci e partiamo". È politica proprio in quanto è sociale. Una volta si sarebbe detto "impegnata".
Sì, infatti non è schierata. Vedi benissimo anche tu che dietro la parvenza di benessere del Nordest, succedono cose diaboliche. È come se il Nordest avesse le mutande sporche. Succedono cose "piccole", come la morte di una persona, che fanno pensare al marcio che c'è, come il finto moralismo o l'anteporre a certi valori quelli di denaro e potere. Penso che si stia vedendo bene in questo ultimo anno che le cose non sono più così rose e fiori… Prima c'era solo il denaro: ora la gente è spaesatissima. Quella di Luca Marc è una storia emblematica per i motivi cui stavi alludendo tu.
Che poi fuori da qui pochi lo sanno, ma è una storia vera.
È una storia vera. Non ricordo il momento in l'ho buttata giù, in cui mi sono venute le parole precise, ma era una di quelle cose che ti colpiscono e cerchi di raccontare in una canzone. Forse è per questo che da queste parti quando la suoniamo dal vivo la gente la sente di più: perché è una cosa che è successa.
Poi succede sempre, come dicevi tu all'inizio, che alle cose dai un significato anche dopo, e magari la gente che ascolta la tua canzone ci trova significati che tu non immaginavi.
Sì, è così.
Perché - adesso ti metterai a ridere - a me poco fa è venuto in mente che il suo sottotitolo, "La canzone del Piave", è anche emblematico, al di là del fatto che sto poveretto ci si è buttato. Cioè, la canzone del Piave è "Il Piave mormorò non passa lo straniero": è come se il Piave, che era la linea di resistenza allo straniero, qui, in quanto luogo del suicidio, sia la linea di resistenza a questi valori di questo mondo. Stranieri all'essere umani.
Quello che ritrovi nella canzone è quello che anch'io ho immaginato. Sembra che tutto vada a gonfie vele se hai una macchina grande, ma magari stai da culo. Capita una stronzata e uno si ammazza. È importante andare al di là della facciata. Anche "Adesso è limpido" ha degli elementi in comune con questo discorso: se sei tutto gingilloso, ma non hai niente in testa, tientelo il tuo stile.
Cosa pensi di quelli che fanno le classiche canzoni impegnate, sullo stile che dicevamo prima?
Mah, quando sono usciti mi piacevano da matti i Cccp, ma sono un'eccezione. Ho le mie idee politiche molto precise, ma nella musica preferisco che si parli d'altro. Cioè, mi sta sui coglioni Berlusconi, ma non scrivo canzoni contro di lui. A me interessano di più le persone che i programmi politici. Hai presente quello che diceva Morrissey di sé? "Sono un ribelle in pantofole". Ecco, io mi trovo in sintonia. Poi, l'unico vero cantante "politico" che ascoltavo era Billy Bragg, ma lì è diverso: se riesci a rendere poetico quello non lo è, sei bravo.
Quest’anno è mancato John Peel, uno che è stato importante per voi. Il tuo ricordo.
Mannaggia. Ne parlavamo l'altro giorno. Per noi JP era una figura mitica: tutti i nostri eroi musicali sono passati nel suo studio. Siamo grati a lui perché prima di altri si è reso conto delle nostre potenzialità. Proprio quando tutti in Italia si mettevano a cantare in italiano (erano appena usciti Afterhours, Marlene Kuntz, Estra), noi ci eravamo messi a cantare in inglese, una scelta controproducente. Pensa che la prima roba che gli avevamo mandato non era "Weekender", ma una cassetta con registrati dei brani live al limite dell'ascoltabile, proprio pessimi. Beh, lui mette in onda sulla Bbc "She's a boy", che durava sette minuti e mezzo di cui i tre-quattro finali di puro casino (allora ci divertivamo così…) e l'ha mandata tutta! Qui dopo il secondo ritornello sei già in fade… Poi l'ho anche incontrato, un anno a Londra, e lui mi ha portato negli studi della Bbc. Cosa posso dirti? Aveva quell'umiltà che è dei grandi: ti portava in palmo di mano come se fossi tu la persona importante. L'umiltà: un valore molto importante e sottovalutato. Comunque c'è un ringraziamento a lui sul disco: ci ha ascoltato, ci ha dato forza, ci ha sostenuti subito. È stato davvero importante.
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L'articolo Northpole - telefono, 22-04-2005 di Renzo Stefanel è apparso su Rockit.it il 2005-04-23 00:00:00
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