A pochi mesi dal 25° anniversario del loro primo concerto, The Bluebeaters pubblicano un nuovo album, dodici tracce che rispondono a un’unica necessità: sentirsi definitivamente calati nella scena attuale, dare finalmente vita a canzoni che rispecchino lo spirito della band nata sul palco dell’Hiroshima Mon Amour, non solo a livello sonoro, ma, anche, e soprattutto, a livello testuale.
Per raggiungere questo obiettivo senza snaturarsi, i BB si sono mossi fondamentalmente in due direzioni opposte, con un’operazione di archeologia musicale in grado di ripescare lo spirito originale della musica giamaicana, ma anche lavorando con i più disparati interpreti delle nuove generazione (Coez, Willie Peyote, Zibba, Cimini e tanti altri). Il risultato è Shock!, il primo album di inediti della formazione nata dall’unione di Casino Royale, Africa Unite e Fratelli di Soledad cantato interamente in italiano.
Cosa vi ha spinto a comporre il vostro primo disco in italiano?
Sono 25 anni che facciamo cover e brani di altri (soprattutto in inglese) e avevamo finalmente il desiderio, la necessità di metterci in gioco anche in un altro modo. Poter creare un mondo tutto nostro, che insieme al nostro suono entrasse in contatto con il mondo della musica italiana in cui viviamo oggi. Forse per sentirci parte di una scena comune e poter dire anche noi cose che abbiamo sempre affidato alle parole degli altri. Queste credo siano le motivazioni che ci hanno spinto verso questa svolta.
Perché avete scelto proprio questo titolo?
Il titolo - Shock! - era in ballottaggio con Originale. Alla fine l’ha spuntata. Il fatto che in questo disco non ci sia una cover è sicuramente, per una band come la nostra, una grossa novità. E le novità un po' di shock lo portano. La canzone Come uno shock, che abbiamo composto con Bianco è stato uno dei primi brani in assoluto scritti per il disco. La parola shock dava l’idea del cambiamento, della novità, dell’apertura e ci è sembrata più adatta alla situazione che vivevamo. Lo shock è la novità di aver scritto brani originali e per giunta tutti in italiano, senza nemmeno fare una cover come spesso si usa fare.
I generi che trattate storicamente non si prestano all’italiano. Lo shock è dato anche dal dualismo tra sound e testi?
Certo, è una sfida cercare di mantenere lo standard che abbiamo affilato e fatto crescere con noi in questi anni. Finora hanno parlato per noi testi che in inglese hanno sicuramente un altro sapore. Inoltre lo Ska e il Rocksteady sono generi che bisogna convertire in italiano con attenzione. Alla musica vengono spesso associati testi "stupidini", "felicioni" o comunque, vista la solarità del genere, "da spiaggia". Che se sono scritti bene e non disdegniamo, ma volevamo ricreare atmosfere molto più introspettive, più soul. Insomma, volevamo provare a metterci la nostra esperienza di vita, di ascolti e bagaglio culturale. E in ogni caso Pat Cosmo di suo scrive da molto tempo, quindi non partivamo da zero.
Scrivere in italiano è un modo per rimarcare che, oltre alla parte sonora, siete anche validi come autori?
Se saremo validi nella scrittura in italiano oppure no questo è da vedere. Sicuramente, ci teniamo a dire quello che abbiamo in testa. In realtà per i testi, in questo disco, abbiamo collaborato tanto, soprattutto Patrick, con amici. Gente che frequentiamo artisticamente, che conosciamo da anni e che abbiamo anche conosciuto recentemente. Con Diego Mancino, Willy Peyote e con Bianco da una parte e Cimini, Lo Stato Sociale e Coez dall’altra. Poi, noi siamo tanti musicisti e mischiati con altrettanti progetti artistici, è quindi naturale dirsi: "Prima o poi dobbiamo fare una cosa insieme”. Ovviamente con chi ti trovi bene. Perché le cose nate a tavolino non sempre funzionano.
Come avviene la composizione in una band così ampia? Io mi immagino un enorme jam session.
In realtà a volte lo è stato. Con questa formazione ognuno di noi, quasi, abita in una città diversa quindi dobbiamo darci appuntamento e prendere gli strumenti in mano. Il momento ideale per jammare è nel soundcheck, alcune cose sono effettivamente nate lì. In generale, Patrick ha fatto un gran lavoro di scrittura personale e poi condivisa con altri per la maggior parte del disco, oltre ad avere già brani suoi che si adattavano anche ai Bluebeaters. Cato Senatore si è scoperto molto ispirato per questo disco e ha portato idee musicali. Abbiamo fatto qualche session tutti insieme a Medicina, al Donkey Studio di Garrincha. Ognuno ci ha messo del suo. Ci abbiamo messo tre anni e mezzo e non sempre è stato facile. Questo perché partivamo da poli, non proprio opposti ma diversi, avendo però presente un’unica cosa: il nostro suono. Ed è stato secondo noi rispettato da un lato, accresciuto dall’altro. Molti più suoni di tastiere e voci, riferimenti agli anni ’80, alla 2Tone, sottili reminiscenze punk e post-punk ma anche Pop. La gamma sonora si è ampliata. La cosa più difficile per la maggior parte di noi è stato metabolizzare la nuova direzione, interiorizzare l’aggiornamento di suono e parole, c’è voluto un po' di tempo ma siamo tutti molto contenti del risultato.
Il percorso che vi ha portato da Everybody Knows a Shock! è ricco di collaborazioni. Questo vostro spirito associativo è dovuto anche alla vostra particolare genesi?
Il fatto di aver suonato, e di farlo ancora, con altre band può aver influito. I Bluebeaters sono nati come progetto parallelo alle attività di gruppi come Casino Royale o Africa Unite per poi diventare un main projec,t per coltivare una passione, quella per la prima musica giamaicana. Se vogliamo, è anche un’operazione di archeologia musicale. Sono state fatte tante collaborazioni, dopo l’uscita di Giuliano Palma nel 2012, sia nella formazione con Pat Cosmo definitivamente alla voce sia come avvicinamento al disco. Lavorare con Boomdabash, Nitro, Frah Quintale, Francesca Michielin, Neffa, ICamillas ma anche come band per un paio di concerti di Ken Boothe, grandissimo e storico singer giamaicano, ci ha lasciato qualcosa di ognuno. E’ come se avessimo descritto una nostra personale geografia di amicizie, di musica, di mondi anche diversi che si incontrano e si scambiano qualcosa e che possono stare tranquillamente sotto il nostro cappello. Se prima prendevamo brani di altri e li rifacevamo a nostro modo, ora ci mischiamo direttamente con gli autori, facciamo esperimenti. Siamo cambiati pur rimanendo The Bluebeaters.
Come sono nati questi featuring?
Rapporti occasionali, storie a tre, orge di artisti chiusi in uno studio. Qualche nome sul taccuino e altri incontrati per caso. Amici di amici. Vecchie conoscenze. Patrick ha suonato in tour e in studio con Coez e Neffa, De Angelo e Henry con Willie Peyote. Con Garrinche e Lo Stato Sociale c’è stato un vero e proprio innamoramento, sono persone bellissime, ci hanno fatto conoscere Cimini e Edo Cremonesi. Diego Mancino è una nostra vecchia conoscenza e ci ha donato il suo "Tempo" (titolo di una canzone dell'album, ndr). Abbiamo lavorato molto bene con Matteo Romagnoli, che è stato un collante continuo sul campo e un ottimo produttore, con Zibba Patrick ha lasciato un microfono in treno. Insomma, quella di oggi è una scena musicale di tutto rispetto, tante voci anche diverse
Le collaborazioni vi hanno aiutato ad approdare all’italiano?
Le spinte venivano dall’interno, ci sono state divisioni tra di noi, tra chi sarebbe andato avanti a cesellare un’identità sempre più vicina all’originale e chi si voleva allargare, a chi stava stretto il nostro “completo” e si voleva togliere la cravatta. E’ stato un processo lungo e faticoso, ma ora siamo assolutamente tutti convinti di quello che abbiamo fatto. Il cambio di Label è la fotografia di questo processo. Tra Record Kicks e il sound super vintage a Garrincha Dischi e il suo pop verboso c’è molta differenza. Quello che accomuna entrambe le etichette è la passione e la serietà d’intenti. Questo disco vive in una terra di mezzo tra questi due emisferi. E’ stata una scelta di campo, un sottile braccio di ferro interno. Abbiamo fatto una gran palestra di tutto, suoni, prove, discussioni, scommesse e siamo solo all’inizio. Siamo già ritornati in sala prove per scrivere subito qualcos’altro, ora abbiamo la “fotta” di fare cose nuove. Il nostro sound ci segue.
L’abbandono del vostro frontman vi ha aiutato a crescere come progetto artistico?
L’uscita di Giuliano ci ha permesso di ripartire con uno spirito sicuramente più collettivo come ai tempi della nascita del progetto. Innanzitutto abbiamo deciso che il nome dovesse racchiudere anche il cantante, quindi solo The Bluebeaters. Forse si è aperto più facilmente il campo a collaborazioni di amici artisti come se fossimo un terreno da esplorare. Tutto questo percorso ci ha fatto crescere.
Più che una band, siete un processo artistico in continuo divenire?
Festa Mobile, che bella associazione! Dal vivo in effetti ci sentiamo davvero come una grande festa mobile, ogni concerto è un nuovo Capodanno che ci porta in giro per il mondo. Il segreto è divertirsi nel suonare insieme. Oltre ai 4 Bluebeaters originali (Cato, De Angelo Parpaglione, Patrick Benifei e Countferdi) ci completiamo con Danilo Scuccimarra, Ricky Trissino e Henry Allavena che ci “riversano” energia vasi comunicanti. E ci sentiamo anche molto amati da fuori, dai musicisti in generale, siamo trasversali musicalmente e sicuramente vicini all’anima del Jazz (lo Ska infatti nasce dal Jamaican Jazz), la nostra attitudine è ancora viva dopo anni di palchi e di studio, di vita in comune.
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L'articolo The Bluebeaters: la nostra personale geografia musicale di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2020-10-09 16:15:00
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