L’alba boreale come fiore dell’umanità, biancheria profumata, fiducia nelle teorie. Insieme a vuoti generazionali, alla fiducia nel linguaggio e alla consapevolezza di un’incomunicabilità crescente: in occasione del live al Cso Django di Treviso organizzato da Sisma, abbiamo scambiato quattro chiacchiere con il mondo limpido e turchino di Umberto Maria Giardini, ora impegnato nel tour del suo ultimo lavoro “Futuro Proximo”.
Domanda di rito: com’è nato questo nuovo disco? Sono passati due anni da “Protestantesima”. Cos’è successo nel mezzo?
Fra un disco e l’altro non è successo niente di particolare, ci siamo solo concentrati sul nuovo lavoro. Anche in maniera abbastanza discutibile. Tant’è che, per la prima volta credo nella mia carriera, siamo arrivati in studio molto impreparati e con le idee anche poco chiare forse, al punto che abbiamo anche eliminato un brano. Però alla fine ci siamo resi conto che ci stavamo presentando con un disco di sole sette tracce e forse era un po’ poco. Quindi ho cercato di correre incontro al tempo e ho scritto almeno due delle tracce dell’album proprio in studio, durante le registrazioni. Contrariamente a quello che pensano molti giornalisti, non si tratta perciò di un disco scritto in tempi lunghi e molto elaborato. È stato un album molto poco arrangiato, suonato di getto. Quello che non è mancato è la concentrazione in studio, proprio per il terrore di non riuscire a realizzare una cosa fatta bene. Però poi si sono susseguite una serie di circostanze molto positive, legate anche al mixaggio, alla masterizzazione e alla rifinitura, che hanno dato molto valore al disco. Direi che il risultato finale è ottimale.
Di che circostanze si tratta?
Un aneddoto è dato dal fatto che a produrre il disco sia stato Andrea Scardovi, boss dello Studio Duna e vero esperto, nonché fonico, di hip hop. Questo è molto bello, perché nonostante io non ami questo genere e non ci sia assolutamente legato mi sono confrontato con qualcuno che si occupa di una musica del tutto diversa, realizzando un disco collocabile nel mercato rock. Il che deve assolutamente far capire agli addetti ai lavori che a volte si cercano i produttori fighi, "Ah io mi faccio produrre il disco da quello lì perché è figo, io vado da quello a Milano perché quel gruppo rock famoso...". Sono tutte cazzate. Basta avere cognizione di causa e sapere ciò che si vuole e uno si può far produrre il disco anche dal vicino di casa, se un po’ ne capisce. Quindi posso dire di essere felice, perché il mio disco è stato prodotto con intelligenza.
"Futuro Proximo" sembra una riflessione piuttosto scura sulla società attuale e sul tuo esserne parte.
In fondo è un tema che ho sempre affrontato nei miei testi. Però in questo album più che mai esprimo ciò che penso rispetto a quello che mi circonda. Non ho molta fiducia nelle nuove generazioni, ho un occhio molto critico. Se vado a guardare la generazione prima della mia, i giovani fra i diciotto e i venticinque anni, sono molto pessimista. Perché se è vero che la crisi economica ha determinato una strada e degli orizzonti molto più difficili, è anche vero che non si può fare finta di niente. Perché è venuta fuori la Rete. Che sta mangiando alle persone il cervello, sminuendo la loro personalità attraverso i social. Sono tutti ingredienti che secondo me vanno poi a riflettersi anche nella qualità della musica, che in Italia si è abbassata notevolmente. Dove è vero che tutti diciamo “Quella roba lì fa cagare”, ma poi i palasport sono pieni di gente. Io parlo se non altro per quello che concerne il mio mestiere. Ma vedo che è lo stesso discorso nella cucina, nello sport, nelle università. Ormai dovranno passare molte generazioni, prima che un certo discorso legato alla cultura possa di nuovo riallacciarsi.
"Credo nella cura tuttavia non ho/ Né timore né rimorso di odiare tanto gli uomini”. Ci credi davvero, a questa cura?
Ci credo, perché credo nel linguaggio. Faccio una premessa: questo è per l’ennesima volta un disco concentrato sul mettere a fuoco la grande incomunicabilità che c’è fra le persone oggi. Sembriamo tanto aperti, tanto avanti con i tempi. In realtà siamo molto regrediti, ma lo siamo perché la Rete ha fatto passi avanti. Finché la rete e il web avranno nuovi orizzonti l’uomo regredirà, perché questo è un meccanismo inversamente proporzionale. Io credo nella cura, nel linguaggio, nella comunicazione. Credo nonostante tutto che parlarsi sia ancora una cosa molto figa, oserei dire determinante per la vita di tutti. Quindi ci credo. Però non mi vergogno di dire che negli anni, forse anche un po’ invecchiando, si diventa un po’ misantropi. Credo di essere molto cambiato rispetto a quando ero più giovane. Provo più piacere ad evitare la gente che ad accostarmi ad essa.
Parliamo un po’ delle canzoni all’interno del disco. Chi è il bambino campionato che ringrazia all’inizio di "Avanguardia"?
La bambina si chiama Ada e la sua voce proviene da una serie di registrazioni realizzate da Massimo Carozzi, visionario del collettivo bolognese ZimmerFrei legato al teatro moderno e di sperimentazione . È un gruppo di bambini registrato qualche estate fa in un parco giochi in Sardegna. Io cercavo qualcosa del genere, che non c’entrasse nulla o comunque fosse di difficile traduzione per l’ascoltatore, che inizia ad ascoltare il disco e trova questi bambini nel parco: una cade, gli altri ridono, lei invece si rialza, "Grazie! Grazie!". Con le ginocchia sbucciate, non dà loro soddisfazione. Mi è piaciuto tantissimo, allora l’ho infilata dentro anche per il contrasto del disco con questa innocenza veramente perduta. Considera che io ho molti flashback di quando ero bambino negli anni Settanta. A dirlo ora sembra di parlare dell’Ottocento, ma ho dei ricordi che metto a fuoco in maniera incredibile. E la cosa incredibile non è tanto questa, quanto ricordare dei momenti... In cui la vita era completamente diversa da adesso. Non so come spiegarti. Gli anni Settanta sono lontani dalla vita di oggi, ma non esageratamente. Eppure la vita era molto, molto diversa. Io mi ricordo di mio padre, di mia madre, di come erano le automobili. Di come si andava a scuola. Della televisione a due canali. Ovviamente non c’era Internet. Nella mia città, non tutte le strade erano asfaltate. Cose veramente incredibili. E io le ho vissute. Io mi ricordo quell’epoca e ho voluto inserire questo contrasto fra questi bimbi e l’avanguardia, in un brano che appunto descrive cosa sia per me l’avanguardia oggi.
"Avanguardia è averti qui/ Madre del mio ventre": il primo verso del brano a chi è rivolto?
Avanguardia per me è ritrovare le cose semplici. Averti qui. Parlo della mia compagna, madre del mio ventre, cioè di nostro figlio. Avanguardia per me è bere un bicchiere di vino con te in terrazza. È dire che il male, oggi, è la gente. È la società stessa, il male della società.
"Però la gente sono anche io...".
E allora vaffanculo, “viva il male”, esatto.
Come sei giunto all’inserimento di elementi elettronici più marcati di alcune tracce ("Alba Boreale", "Graziaplena") del disco?
In realtà è elettronica, perché è elettronica, però solo ed esclusivamente legata ad un Moog. Niente di particolarmente sofisticato quindi, anche se mischiato ad altri suoni e ascoltato ad alta qualità può sembrare chissà che. Sono semplicemente dei programmi, dei suoni all’interno del Moog. Che è comunque un sintetizzatore. Come un piano, niente di molto elaborato in realtà.
Ci racconti com’è nato il video che Erika Errante ha realizzato per “Alba Boreale”?
L’ho pensato totalmente io. Però ti posso garantire, e lo sto dicendo a tutti, che c’è un po’ di sopravvalutazione. Cioè, è un buon clip. Ma è un clip girato all’ultimo momento. E, te lo confesso, con lo storyboard deciso la sera prima.
Non è quello l’aspetto che colpisce del video infatti, quanto la sua sincerità. Che è legata forse anche alla scelta degli attori. Tutti e tre molto belli, non solo o comunque non prettamente su un piano estetico.
Abbiamo cercato di giocare per l’appunto molto sulle figure di questi tre ragazzi molto giovani, molto puliti. Moderni, ma con una propria dignità, con un’innocenza peculiare. Queste teste rasate con i fiori in mano, che seguono il loro musicista preferito appena esce di casa, ma che si vergognano di fermarlo e di parlargli. Poi a un certo punto io verso la fine del clip mi accorgo che mi seguono e cerco di seminarli. Finché non entro in un taxi e me ne vado.
E ti lanciano i fiori.
Esatto, fine del clip. Un nonsense insomma, non c’è stato un significato particolarmente cercato. Perché la verità dei fatti è che non c’erano soldi e che né io né la regista abbiamo avuto un’idea vincente, che potessimo mettere a fuoco. Allora abbiamo scelto di realizzare un clip privo di grossi significati, ma che facesse soprattutto affidamento sulle riprese, sul montaggio e come dicevi tu, anche se poi non tutti lo colgono, su un certo gusto estetico. Né più né meno.
Rimanendo nella sfera estetica, anche la copertina ha una geometria un po’ inedita.
Anche qui: non avevo idee e ho fatto una linea. L’unica idea in quanto tale è stata quella di scrivere Futuro Proximo in rosso in basso, con le lettere un po’ sfasate. E per il vinile, quella di farlo diverso, uguale al cd ma con colori diversi. Stop. Fine della parte grafica. Però credo che funzioni. È molto fredda. Ma d’altra parte non ho mai avuto un gusto estetico molto tropicale.
A volte le cose vanno in una direzione opposta a quella che pensavi: lo stesso sembra fare il pezzo omonimo, continuamente sospeso fra controsensi che si annullano a vicenda. Com’è nato?
Bisogna sottolineare una cosa. Lo sanno tutti e chi non lo sa ora lo saprà: io sono un analfabeta in musica. Non so cosa siano un do o un re. Faccio tutto a orecchio e a occhio soprattutto. Lavoro sempre prima sulle musiche, quindi qualsiasi brano nasce strumentale. Dopo aver pattuito con la produzione come sarà battezzato il pezzo e avergli dato una veste, tendo a lavorare ai i testi ascoltandolo in cuffia. Ho quindi già la musica alle orecchie. Perciò questo specifico brano, come tutti gli altri del disco e della mia carriera in genere, cerca di viaggiare parallelamente alla musica, su un binario diverso ma parallelo. Quello che scrivo nei brani non ha una regola precisa, viene fuori dall’immaginario di quel momento. È un flusso di coscienza, che incastra le parole alla musica, buttando fuori fuori frasi che poi, cosa anche molto bella, l’ascoltatore traduce sulla base di quello che ascolta. Magari quindi emergono significati che non sono quelli che volevo dargli io. Ma va benissimo che sia così, perché il significato è ciò che uno traduce, non necessariamente quello che dico io in quanto autore del pezzo.
"Caro Dio", "Graziaplena", "Mea Culpa": ci dici qualcosa in più su questi titoli dal richiamo apparentemente religioso?
Io sono un laico di tradizione. Non ho niente contro i credenti, di qualsiasi religione. Penso di poter dire anche che la chiesa in sé e per sé non mi sta poi così sul cazzo come la cultura anarchica e di sinistra hanno sempre affermato. Mi stanno più sul cazzo quelli del PD. Mi sta più sul cazzo un senatore che un prete, devo essere sincero. Ciononostante non frequento i preti, non vado in chiesa, non sono credente. Detto questo, "Caro Dio", "Graziaplena" e "Mea Culpa" non hanno alcun riferimento con la religione. In "Graziaplena" dico “Il mio dna è graziaplena” perché è un cognome. Io provengo dai Graziaplena, poi passati a Forconesi, Fedeli e infine Giardini. Ma la mia stirpe originariamente si chiamava così. Quindi non c’entra niente con la religione. "Mea Culpa" come “Futuro Proximo” è un finto latino, potevo dire mia colpa, ho detto mea culpa. Ma ugualmente non c’entra niente con la religione. E infine “Caro Dio”, forse l’unico brano in cui mi rivolgo... Chissà a chi, neanche posso dire a Dio perché non ci credo. È una sorta di preghiera rivolta al nulla. Io credo che Dio sia la chimica. Ogni molecola, ogni cellula è Dio. Dio è dappertutto. Ma non credo in un Dio legato a una religione, ad un testamento, ad un Messia o ad un profeta. Credo che Dio sia infinitamente grande, ma forse perché è infinitamente piccolo. E quindi mi rivolgo a lui.
Con "Futuro Proximo" continua il tuo sodalizio con la Tempesta, etichetta che ti ha sotto la propria ala dal 2005 con "Splendore Terrore". Quanto pensi sia influente per un artista oggi il rapporto con la propria casa discografica?
Come tutte le cose credo sia importante, ma è un’importanza legata proprio all’amicizia e a un rapporto di umanità che c’è fra me ed Enrico Molteni. Perché l’etichetta è lui, è lui l’unico che se ne occupa. La Tempesta è un timbro. Non esiste un ufficio. Non esiste un recapito telefonico. Non esiste un numero di fax. Non esiste una riunione di lavoro annuale, non esiste niente. Non esistono una scrivania, un campanello. È un modo di pensare la musica in un’altra maniera, differente. Vuol dire veramente essere indipendenti. Io sono legato a questo presupposto, a questa modalità. E se questa modalità si chiama Tempesta, io sono legato alla Tempesta.
Una curiosità: che ruolo pensi abbia avuto il tuo breve progetto Pineda nella genesi di quest’album?
Pineda è stato un progetto concepito per durare un anno. Un unico disco per poi scomparire. Ed è stato un disco molto importante per me. In primo luogo perché io non cantavo ma suonavo la batteria, che è il mio strumento originario. Finita l’esperienza decennale di Moltheni mi sono rimesso a studiarla e ho voluto fare questo disco strumentale, che avevo in mente da tanto tempo. C'è un disco dei Beastie Boys, un album mostruoso tutto strumentale che sfornarono negli anni Novanta (The in Sound from Way Out, ndr): questo album ha influito sulla genesi del progetto Pineda, insieme alle passioni che ho da sempre, in particolare i Tortoise, e all’esplosione del suono di Chicago e al post-rock. Io ho vissuti pienamente quegli anni. In cui era quasi vietato cantare, ma bisognava suonare. Lì il livello si è alzato moltissimo, perché quando vai ad ascoltare sia dal disco che dal vivo gruppo strumentali, per amarli ci vuole una certa preparazione e conoscenza musicale. E quindi era un disco strumentale che avrei voluto fare da sempre. Dopo aver concluso l’esperienza Moltheni, insieme al mio chitarrista Marco Maracas ci siamo inventati questo progetto e abbiamo suonato questo disco. Che è un disco di alta qualità, un ottimo lavoro. E sì, mi ha influenzato, ma in realtà è farina del mio sacco, quindi più che dire che mi ha influenzato direi che sono le mie influenze ad essere emerse, materializzandosi in questo progetto collaterale. Con Moltheni si trattava di un cantautorato psichedelico folk. UMG ha un suono molto più rock, più legato al suono di Anna Calvi. Pineda è in mezzo, è una cosa strumentale sperimentale, molto legata a un suono direi quasi doorsiano, comunque anni Sessanta, Tra l’altro non c’è basso, solo Rhodes, batteria e chitarra. È un disco molto psichedelico, molto avanguardistico nel suo concepimento ma anche nel suo significato più profondo.
Hai altri progetti in atto al momento?
In questo periodo sto lavorando anche ad un progetto che si chiama Stella Maris. Un quartetto anni stile anni ‘80 inglesi. Anni che ho vissuto molto intensamente fra l’altro. Molto diverso dalle mie cose, fortemente smithsiano. Mi piace tantissimo. Sto scrivendo i testi e ho avuto un’illuminazione. Ci ho messo molto a capirlo, cinquant’anni esattamente, ma ho capito che, se non altro per ciò che riguarda le liriche, la musica è determinante. Uno dice "Be, se sai scrivere sai scrivere". Non è così. Perché quando tu ti metti le cuffie, quello che ascolti determina la qualità di quello che scrivi. Se tu mi dai un brano strumentale dove nessuno canta ed è musica di merda, io scrivo solo merda, perché quello è merda. Indipendentemente dal fatto che poi questa gente riempia i palazzetti. A volte alcuni mi dicono: “Hai fatto un disco incredibile, bravo, ma come hai fatto?”. Non è che io abbia fatto un disco incredibile. Per carità, non tutti vanno in studio e registrano un lavoro. Ma spesso è la merda che ci circonda che mi eleva. Non sono io bravo, è che è tutta melma intorno.
È un tema complesso. Per alcuni aspetti è vero. Per altri però penso che certe liriche tue e di altri progetti siano molto delicate di per sé, con alcuni piccoli dettagli e attenzioni molto scintillanti. Indipendentemente dal confronto con altre produzioni.
Credimi: quando ascolti qualcosa che ti piace, quando leggi qualcosa che ti piace, quando guardi qualcosa che ti piace, può essere un film, una canzone, una poesia... È perché tu sei così. È un riflesso. È uno specchio. La vita è uno specchio. Devi trovare dove però la tua immagine viene riflessa. Perché tutto è uno specchio, ma non tutto ti riflette. Quello che riflette me magari non riflette te, e viceversa. Però, quando tu scopri qualcosa che ti piace e lo senti tuo, è perché sei anche tu così. Le cose che io scrivo ti arrivano, perché evidentemente io e te siamo simili, pur non conoscendoci, pur avendo una vita diversa. E questo è molto bello. Come anche la merda che scrivono altri funziona perché là fuori la merda è tanta. Perché la gente media è così. Non si accorge di niente. Non coglie le sfumature, non vede le cose tridimensionali. Vede una dimensione sola e pensa che tutto sia così. E invece non è così. Però ci siamo noi, che ci accorgiamo di qualcosa di buono.
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L'articolo Umberto Maria Giardini (ex Moltheni) - L'amore tridimensionale di Giulia Callino è apparso su Rockit.it il 2017-02-22 13:11:00
COMMENTI (1)
Bellissima intervista !