All Star Game

Intervista a Marco Fasolo, anima degli Universal Daughters, supergruppo con tantissimi ospiti italiani e internazionali

Intervista a Marco Fasolo, anima degli Universal Daughters, supergruppo con tantissimi ospiti italiani e internazionali
Intervista a Marco Fasolo, anima degli Universal Daughters, supergruppo con tantissimi ospiti italiani e internazionali

“Why Hast Thou Forsaken Me?” degli Universal Daughters (“Perché mi hai abbandonato?”, dal Vangelo secondo Marco, 15,34), progetto benefico i cui proventi andranno a favore dell’organizzazione Città della Speranza, Fondazione che finanzia il centro di oncoematologia pediatrica di Padova, è sicuramente uno degli album evento dell’anno, nella sostanza e non nei tronfi proclami degli uffici stampa. Basta considerare la lista delle collaborazioni: Jarvis Cocker (Pulp), Gavin Friday (Virgin Prunes), Chris Robinson (Black Crowes), Lisa Germano, Stan Ridgway (Wall of Voodoo), Mick Collins (Dirtbombs), Baby Dee, Alan Vega (Suicide), Steve Wynn (Dream Syndicate), Mark Arm (Mudhoney) e Swamp Dogg, leggendario cantante soul 76enne. L’album, fatto di cover di brani angloamericani, esce a firma di Universal Daughters, supergruppo indie italiano il cui nucleo centrale è costituito da Marco Fasolo (Jennifer Gentle), Maurizio Boldrin (altra leggenda, stavolta della musica italiana, in campo dai tempi del beat Sixties di Craaash e Delfini e oggi membro dei Mamuthones) e Jean-Charles Carbone (titolare degli studi Abnegat Records di Vicenza), cui si sono aggiunti, tra gli altri, Alessandro “Asso” Stefana (Guano Padano e Vinicio Capossela), Luca e Alberto Ferrari (Verdena), Alessio Gastaldello (Mamuthones) e Francesco Lovison (Slumberwood). Insomma, tanta roba. Da approfondire con Marco Fasolo.

Vorrei iniziare l’intervista riannodando i fili. Sono passati sei anni dall'ultimo album per Sub Pop, "The Midnight Hour", e tre dall'ultimo in assoluto, "Concentric", uscito per A Silent Place. In mezzo i Jennifer Gentle che rimangono un duo, le avventure con i Verdena, la nascita di un figlio. Come ti ha cambiato tutto questo, se ti ha cambiato?
Due-tre elementi chiave mi hanno cambiato. Uno, l’aver constatato sulla mia pelle quanto sia difficile crescere, progettare e programmare insieme ad altri. Da soli è più facile: è tutto nelle tue mani. In gruppo si rischia di cadere in situazioni che ti rallentano. Un po’ come in qualsiasi tipo di rapporto, un numero superiore al due è sinonimo di crisi. E questo è specialmente vero nell’ambiente musicale.
Due, mi ha dato tantissimo la nascita di Julian: la mia vita è cambiata in meglio. Vedere una vita nascere mi ha fatto capire che non ci sono problemi per cui valga la pena di crucciarsi: bisogna risolverli e basta. Prima di Julian credevo di avere dei problemi: lui mi ha fatto capire che non ne avevo.
Tre, il lavorare a questo disco, a cui ho dato molto, essendo un progetto a lunga scadenza (14 mesi, da gennaio 2012 a metà marzo 2013) e dal budget inesistente, per cui tutti hanno partecipato a costo zero, anche lo studio, per cui si lavorava quando si poteva, nelle pause in cui non era occupato.

Due tour insieme, più questo disco: cosa hanno dato i Verdena ai Jennifer Gentle e cosa hanno dato i Jennifer Gentle a loro?
Mah, i Verdena ai Jennifer Gentle hanno permesso di ritrovare la gioia sul palco, l’empatia, la condivisione, la potenza, la passionalità, il divertimento. Liviano (Mos, il tastierista dei JG, ndr) ed io uscivamo da un’esperienza brutta. Abbiamo iniziato a suonare coi Verdena perché eravamo da soli, proponendoglielo quasi per gioco: loro hanno accettato subito perché era una cosa divertente per tutti. Loro sono merce rara: capaci e umili, simpatici e intelligenti, bravi e preparati musicalmente ma con la voglia di divertirsi. Avevano rispetto per le mie canzoni e sono scesi di qualche gradino per suonare con noi. Ci hanno ridato la voglia di fare e di condividere.
Poi, posso dirti cosa credo di aver dato a loro, forse, da come vedo si comportano con me: diventano radiosi. Ma non perché io infondo meraviglie nella gente. Ma perché sanno di poter dar spazio al loro lato più ludico e giocoso, sperimentale, uscendo, forse e sottolineo forse, dai paletti di un immaginario che si è costruito addosso a loro come Verdena.

Come sono i rapporti con Sub Pop?
Ottimi, ma sporadici. Non mi chiamano otto volte al giorno per sapere quando sarà pronto il nuovo disco, anche se è quasi alla fine e ho grandi progetti. Però l’altro giorno Dean Whitmore mi ha scritto una mail perché il nostro autista nel tour Usa viene in Italia e voleva mettersi in contatto con me, per dirti.


“Why Hast Thou Forsaken Me?” nasce da un'esperienza forte vissuta da Marco Damiani, tuo antico manager e amico. Chi ha scelto i brani e in base a che criterio?
Tutti e due, cercando di coprire l’intervallo tra anni 20 e fine 70. Il tema è l’essere umano in quanto tale, con tutti i suoi risvolti. I testi delle canzoni sono la chiave del disco: amore, amicizia, odio, passione, tristezza, allegria, depressione, morte, vita, descritte nel modo stilizzato e succinto, ma potente, tipico della canzone.



È un concept, insomma.
Il termine è un po’ prog, ma sì. Però non abbiamo voluto dare un ritratto mirato o tendenzioso dell’uomo, ma vasto e completo. Non diciamo “secondo noi è così”: c’è il sado-maso di “Cheree” dei Suicide, l’amore finto platonico di “Midnight, the Stars and You!” di Al Bowlly, la schizofrenia di “I Hear Voices” di Screaming Jay Hawkins o di “Psycho” di Leon Payne. È un viaggio all’interno delle emozioni che l’uomo può provare.

Quanto questo è un disco di Marco Fasolo e quanto di Marco Damiani?
Tutto è partito nell’estate 2011, quando ho potuto finalmente conoscere Chris Robinson, a cui erano piaciuti i nostri dischi, in occasione del live dei Black Crowes a Vigevano. Abbiamo parlato per ore e ci siamo promessi di collaborare. Ne ho parlato con Marco Damiani ed è nata l’idea di un disco di cover: lui ha fatto la prima tracklist ed io ho sostituito un paio di brani, aggiungendo “First of May” dei Bee Gees e “Hong Kong Blues” di Hoagy Carmichael. Poi lui si è occupato dei contatti, contagiando col suo entusiasmo quasi tutti coloro cui ci siamo rivolti per questo miracolo, ed io degli arrangiamenti e delle scelte stilistiche.

Per te così influenzato dalla scena british (Syd Barrett, Joe Meek), com'è stato registrare un album così americano, con così tanti blues, jazz e black music?
È vero che la maggior parte dei pezzi li ha proposti Marco Damiani, però li conoscevo tutti, a parte due. Dal punto di vista dei testi, mi hanno dato molto subito. Da quello della musica, erano tutte cover, quindi potevo fare di loro ciò che volevo: ho conservato quasi sempre la struttura e la tonalità originali, ma ho cercato di creare un mio mondo , dato che i pezzi erano molto diversi tra loro e volevo renderli un disco e non una compilation. Se i testi erano il filo conduttore, volevo però dare ai pezzi un vestito altrettanto elegante. Quindi non ci sono stati problemi. Mi sono solo preso la libertà di aggiungere un bridge che è un piccolo omaggio a Les Paul e Nino Rota in “Midnight, the Stars and You!”, interpretata da Lisa Germano.

Il nome della band cita un vecchio brano dei Jennifer Gentle: cosa avete voluto dire con questo?
Volevo che nel nome ci fosse qualche rimando ai Jennifer Gentle perché senza di loro non avrei conosciuto Chris Robinson, senza cui non sarebbe nato questo disco. Poi proprio Chris mi ha scritto in una mail che i brani del disco gli sembravano “cosmic tunes”. Ho pensato che fosse una definizione adatta al fatto che stavamo spedendo in mezzo mondo files condividendoli con così tanti musicisti diversi. E ho realizzato che queste idee erano come figlie: Universal Daughters, quindi. E poi questo nome aveva un che di misterioso, quindi era ok.

Quindi tutto è stato fatto a distanza.
Sì, spedivamo delle tracce base e ci cantavano sopra. Noi ricevevamo il file con il cantato e sviluppavamo ulteriormente il pezzo, facendo poi sentire il rough mix ai collaboratori.

Il significato della copertina?
Molteplice. È stata realizzata dallo Slumberwood Collective e ho supervisionato il tutto. L’idea è vedere le cose a diversi livelli: la superficie che si rompe, in una specie di matrioska cosmica, indica la possibilità di un concetto di avere più livelli di interpretazione. Bisogna sempre scavare: hai presente David Hemmings in “Profondo rosso” quando gratta sotto l’intonaco e scopre l’affresco del bambino?

Come è stato registrare con una formazione aperta, allargata, anche se con membri di Mamuthones e Slumberwood, band con le quali collabori abitualmente?
L’ossatura della band eravamo io alla chitarra e al basso, Maurizio Boldrin alla batteria e Jean-Charles Carbone al piano, poi ci sono stati degli allargamenti con ospiti. In generale ho cercato di coinvolgere tutti quelli che volevo che ci fossero dove ce ne fosse una reale necessità, per la resa che solo loro potevano dare. Li volevo affettivamente, sentivo che ci dovevano essere, ma sapevo che il loro tocco era essenziale. Su “Psycho” e “Kangaroo” (dei Big Star, ndr) ad esempio c’è “Asso” Stefana. Oppure in “I Hear Voices” ci sono le urla e i lamenti di Alessio Gastaldello, che è un tassello importante della mia vita: solo lui poteva darmi quello che volevo e infatti tutto è stato perfetto alla prima take o quasi.

Dunque la collaborazione con gli artisti stranieri è avvenuta a distanza. In base a cosa li avete scelti e avete effettuato gli abbinamenti coi brani?
In generale non è stato necessario pensarci neppure un secondo. Il primo contattato, Chris Robinson, secondo noi era perfetto per “I Am Born To Preach The Gospel” (di Washington Phillips, cantante gospel texano degli anni 20, ndr). Immagina la sorpresa quando ci ha detto: “Questo è uno dei miei pezzi preferiti!”. E pure baby Dee quando gli abbiamo proposto “Hong Kong Blues”: e mica lo sapevamo che era il suo brano preferito e che lo suonava spesso! Lo stesso con Steve Wynn quando gli abbiamo offerto “Psycho”. Agli altri abbiamo proposto di scegliere tra due o tre pezzi, ma è andato tutto a pelle. Questo ha a che a fare col titolo e la copertina: in questo disco c’è qualcosa di miracoloso.

Mi ha colpito che Alan Vega non interpreti “Cheree”, affidata invece a Mark Arm.
Era quello il figo! E poi così Alan in questo disco c’è due volte: come interprete e come autore. Poi Mark Arm ha offerto una interpretazione straordinaria. “È la prima volta che canto così”, ci ha scritto e in effetti ha tirato fuori questo falsetto straordinario. Quando ha sentito i mixes, Steve Wynn ci ha scritto: “È un disco pazzesco. Non vedo l’ora che esca: devono averlo tutti”. Gavin Friday, che sai come è lavorativamente, ci ha scritto cinque mail per dirci che il disco è meraviglioso. Ne vado fiero.

Chi o cosa ti è piaciuto di più?
Tante cose. Quando abbiamo ascoltato il file del cantato di Chris Robinson, ci siamo guardati e abbiamo detto: “Ok. È un disco vero”. O Swamp Dogg, 76 anni, che canta come un ventenne. Poi Friday, Lisa Germano, Mark Arm, ma la cosa che mi ha emozionato di più, perché amo alla follia quella canzone, è stato Jarvis Cocker che canta “First of May”. Quando la sento, io piango. Non so: chissà cosa mi smuove dentro. Sono onorato di aver potuto costruire questo disco come un vero produttore. Mi sono sentito “vero”. Non che non mi sia capitato anche in passato, ma ho capito che quello che voglio dal mio futuro è che sia sempre così. È stato un passo avanti a livello di consapevolezza. Devo e dovrò molto a questo disco. È un disco, come ho scritto nelle note, che parla dell’amore e che dedico alla musica. È il mio gesto d’amore verso la musica, in cui ho messo tutto, e verso le persone che ci hanno collaborato: Marco Damiani, Maurizio Boldrin, Jean-Charles Carbone.

C’è anche un altro cantante nel disco: tu. Su "Mother" trovo che la tua voce somigli moltissimo a quella di Lennon. Cosa hai fatto?
Ma dai! Anche qui è successa una delle cose miracolose di questo disco: ho chiamato i Verdena per realizzare il pezzo e loro mi hanno detto: “Va bene. Tanto la facciamo già dal vivo”. Ed io neanche lo sapevo! L’ho riarrangiata, ho dato loro delle indicazioni e abbiamo registrato tutto live, solo con la voce guida che poi ho rifatto. Me la sono vissuta: volevo entrare dentro il testo. Tecnicamente ho messo solo un po’ di eco e ho tirato il collo all’ampli e al banco. Ma soprattutto mi sono sentito nella parte. Il finale a livello emotivo mi è costato molta fatica, perché mi è venuto facile e allora mi sono commosso. Non ho affatto cercato di emulare Lennon, semmai per l’arrangiamento ho pensato a Phil Spector. Era comunque il pezzo giusto per concludere il disco , fin dall’inizio doveva esserlo, perché esprime, attraverso passaggi dolorosi, il ritrovato ottimismo, che ho cercato di rendere con gli organetti e i battiti di mani. È un pezzo di disperazione totale, ma che intravede un bagliore in fondo: ed è questo il messaggio del disco.

So che tra i pezzi doveva esserci anche "Five years" di Bowie: che fine ha fatto?
C’è, esiste, è stata registrata. Ma siamo in trattative per l’interprete. Se andassero in porto potrebbe comparire in un’eventuale seconda edizione dell’album.

C'è un futuro per gli Universal Daughters?
Con questo nome e questo progetto? Chi lo sa! Dovesse morire adesso, vivrà sempre perché da esso ho imparato moltissimo e avrà strascichi infiniti su ciò che farò. Ha aperto delle cose che non si chiuderanno.

Girano delle voci su un live con gli ospiti internazionali al Geox di Padova o al Primo maggio a Roma…
Vedremo, per quanto ne so sono solo ipotesi che abbiamo fatto tra noi. Sarebbe stupendo, visto il progetto, il contesto per cui è stato fatto, cioè la Città della Speranza. Sarebbe bello poter fare un evento, magari solo uno, ma che ci sia. Ma di queste cose non mi occupo io e sono solo speranze.

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L'articolo All Star Game di Renzo Stefanel è apparso su Rockit.it il 2013-04-03 00:00:00

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