I torinesi Scarlets sono quanto di più fresco e interessante sia uscito ultimamente in ambito indie rock. Testi mai banali, un certo tipo di ricerca che li spinge oltre alla semplice scopiazzatura delle band inglesi (benchè sia palese una loro attrazione verso quei suoni e quegli arrangiamenti) e un'amore innato per la letteratura (e per la guerra). E prima ancora dello stile, un'attitudine genuina nel fare e nel proporsi. L'intervista di Nur Al Habash.
Scarlatto è il colore del sangue. C'è di mezzo la passione, l'intensità, ma anche la guerra. Il tema del conflitto ritorna spesso nei vostri testi, e anche la vostra immagine (copertine cd, flyer) è molto influenzata da uno stile quasi ottocentesco: teste mozzate, serigrafie, spade sguainate. Ci potete spiegare perché? Qual è la guerra a cui pensano gli Scarlets?
Stefano: Dunque, partendo dal nome, l'aggettivo 'scarlatto' appare continuamente in numerose opere di Oscar Wilde, John Keats e Lord Byron, per questo a suo tempo venne scelto come nome della band. Per quanto riguarda l'immaginario "bellico", diciamo che oltre ad affascinarci esteticamente (come negarlo), rispecchia bene la solennità che è presente nelle nostre canzoni, a partire dal modo in cui vengono scritte in sala prove. In quanto ai testi, ovviamente uso molte volte riferimenti bellici e il più delle volte si tratta di metafore (non è il caso tuttavia di un pezzo come "The Women Of WWII" che parla di un periodo storico preciso e della figura femminile nelle guerre). Infine posso dire che qualsiasi sia l'argomento, il tema delle nostre canzoni è sempre affrontato nei termini del "conflitto", cosa che mi viene quasi spontanea quando scrivo un testo. Non è affatto meditata, anzi a volte mi trovo a doverla controllare.
Ivan: Per quanto mi riguarda, voglio aggiungere che la guerra e la dimensione del conflitto hanno sempre avuto per me un valore particolare. Primo Levi dice ne "La Tregua" una cosa semplice e fondamentale, ovvero che guerra è sempre, e nel romanzo "54" del collettivo Wu Ming, si dice che "Gli stolti chiamavano «pace» il semplice allontanarsi del fronte". Ovviamente non si può dire che ci sia una influenza diretta sul nostro modo di essere e di scrivere in queste due frasi, sono cose che riguardano piuttosto me, ma riassumono bene un atteggiamento, un modo di porsi di fronte alle cose, come diceva Stefano, in cui il conflitto ha un ruolo centralissimo e piuttosto istintivo.
La guerra è sempre, quindi. E ad essere giovani e forti (come voi) si combatte meglio?
I: No, non credo. Si ha più voglia di combattere, si possono prendere più colpi, forse si è più consapevoli.
S: Credo che vi sia quasi un compiacimento nel nostro combattere.
Oltre che a parlare di guerra, i vostri testi trattano qualsiasi cosa come uno scendere in campo: pensate che si debba dare una sferzata, nei testi ancor più che nella musica, per uscire da questa indolenza generalizzata? Dico questo perché di solito chi canta in inglese, specialmente se italiano, tende a fregarsene abbastanza di quello che dice...
I: Esatto. Noi ce ne freghiamo assolutamente di quello che viene detto, i testi hanno dei tempi di scrittura anche piuttosto lunghi e le parole sono sempre importanti. E riguardo all'indolenza generalizzata, penso che sia necessaria una assunzione di responsabilità, in quello che si fa, in quello che si dice e nel modo in cui le cose vengono pensate e realizzate. Credo che c'entri molto la serietà nell'agire, che non significa noia, si può essere ironici, si può ridere ed essere serissimi nel farlo.
Quindi, testi seri, giusto?
S: Sì direi che i testi, per intenderci, si possano definire seri, ma per noi sarebbe assurdo se non lo fossero. Io personalmente ho parecchie cose da dire, non posso permettermi di parlare dei flirts sul dancefloor in una canzone.
Parlando invece di suono, il vostro è freddo e deciso. Da romana, penso stupidamente sia in qualche modo dovuto a Torino, città in cui vivete. Quanto conta vivere lì, quanto conta la forma della vostra città, la gente e i palazzi, il freddo e le vetrine?
S: Torino sicuramente ci influenza, ma inconsapevolmente. Penso ci influenzino più i palazzi della gente, comunque.
I: Sì, probabilmente molto più i palazzi della gente. E Torino negli ultimi dieci anni ha decisamente perso molto di quello che era negli anni ottanta e nei primi novanta, nel bene e nel male.
S: Il merito di Torino credo sia quello di accompagnare la scrittura dei nostri pezzi, più che influenzarla. Nel senso, quando abbiamo una nuova canzone e guardo fuori dalla finestra, si crea una certa armonia, ma la scrittura non deriva mai da un certo stato d'animo della città e della gente che la popola.
I: Più che freddezza si può parlare di riservatezza, per Torino così come per le persone che la abitano.
Io so solo che ho spinto play e sono venuti a galla gli Interpol, poi gli Smiths (e certo, poi gli Scarlets): e' un suono preciso quello che ricercate, oppure viene su così e decide lui?
S: Siamo molto attenti al suono. Ora come ora (ma anche al tempo della registrazione del nostro EP) il nostro suono è molto differente. Il parallelo con gli Smiths ovviamente mi/ci riempie di orgoglio, ma probabilmente le nostre influenze sono meno scontate di quanto possa sembrare.
Per esempio?
S: Per esempio The Specials, Style Council, English Beat, Ultravox, ma ancora di più (per me) lo ska della Trojan. Parlando per il nostro chitarrista Paolo, so che è appassionato dei My Bloody Valentine.
I: Dalla registrazione dell'ep ad oggi sono cambiate moltissime cose, e in effetti il lavoro sul suono non è finito e non so se raggiungerà un punto di arrivo definito. Certamente al di là delle influenze c'è una direzione verso cui andiamo istintivamente.
Così su due piedi mi verrebbe da dire che stareste bene sulla copertina di NME; il che può essere un complimento ma anche una cosa poco lodevole, visto che le band che si danno il cambio su quelle pagine hanno un suono abbastanza uniforme, che dopo un po' sa di stantio. Che rapporto avete con le band inglesi degli anni duemila?
S: Io ho un ottimo rapporto con le band inglesi degli anni duemila, ma non con quelle che finiscono sulla copertina di NME.
I: Io penso anche che se dovessimo finire sulla copertina di NME nessuno di noi avrebbe da ridire. Però è vero, hanno una vita più breve delle farfalle, è una specie di maledizione
S: Detto schiettamente odio i Klaxons, gli Wombats (ci mancherebbe altro) e compagnia bella, quando in Inghilterra ci sono band che meriterebbero di diventare baronetti.
Forse quello che conta e distingue i baronetti dai pargoli da NME è lo stile. O no?
I: Dipende da cosa si intende per stile. Io che sono un pochino più vecchio degli altri Scarlets ho sempre pensato che la cosa importante fosse l'attitudine. Attitudine è fare le cose in un certo modo, è anche intelligenza e lungimiranza. Il successo economico non nega necessariamente l'attitudine, e rimanere una band di nicchia non dà meriti di sorta.
S: Per me in una band è molto importante come si presenta, l'attitudine, l'atteggiamento, la coerenza e lo spessore dei testi.
Siete tutti molto giovani. Nella musica, come in molti altri campi, in Italia si fatica a trovare gioventù (vera, non ostentata). Pensate sia un valore aggiunto?
S: Sì, per il bene del gruppo sì, anche se spesso si rischia di essere sottovalutati per la poca esperienza alle spalle, ma la cosa non ci preoccupa.
I: Io non penso che sia un valore aggiunto a prescindere, non so quanto aiuti in fondo, da un lato c'è l'eventuale rischio di essere sottovalutati, dall'altro quello di essere presi e messi sul piatto come fenomeno da baraccone. Se c'è un valore aggiunto, è nell'avere tempo, tempo per fare le cose e tempo davanti a sé.
In cosa vi sentite italiani, musicalmente parlando?
S: Io mi sento italiano solo per i testi. Non che mi senta 'inglese" per la musica. Non penso di avere un'identità musicale; chi mi conosce forse non sarà d'accordo dato che il 90% delle cose che mi piacciono sono inglesi. Ma, ecco, una cosa che vorrei dire è che il fatto che cantiamo in inglese, non significa un rifiuto per l'Italia. La nostra canzone "Our Country" (ed è una di quelle che sentiamo più nostra) parla del nostro Paese (non ne parla molto bene è vero), ma puntiamo ad un continuo confronto, approfondimento della storia del nostro Paese e non ad un rifiuto a priori.
I: Un'altra cosa che credo sia importante, è cercare di ridimensionare il peso della provenienza. Non che non conti, musicalmente, il posto da cui si viene; ma non è o non vogliamo che sia un legame soffocante. Nel dirlo mi riferisco al fatto che la nostra identità, quello che siamo e anche dove vogliamo andare, la strada da prendere, sono tutte cose influenzatissime da quello che succede fuori dall'Italia, oltre che dentro. Allora certamente nello scrivere riflettiamo sull'Italia, se vuoi in un modo "politico" e comunque il confronto (e il conflitto) sono cose a cui non vogliamo rinunciare. Ma uscendo fuori da questo quadro e parlando a un livello più generale, quello che conta è l'attitudine di cui dicevamo prima, quello che conta sono le canzoni, il lavoro che ci sta dietro, la fatica anche. Il fatto di essere in Italia ha a che fare con tutto questo ma non lo direziona in modo determinante.
Che libri leggono gli Scarlets?
I: Leggo veramente tantissimo, e non è per darsi un tono. Cose veramente memorabili lette nell'ultimo anno: "Post Punk" di Reynolds, "Dies Irae" di Giuseppe Genna.
S: Io leggo solo classici. So che Albi ultimamente si è appassionato di Wu Ming... Paolo penso che legga solo manuali di micro e mega economia, ma in passato adorava Wilde e Poe.
I: Ballard, che ho scoperto molto tardi e che mi sono trovato ad acquistare e leggere compulsivamente. E poi sì, Alberto si è appassionato di Wu Ming e loro sono un'altra delle cose che vale la pena leggere, con tutto quello che gli gravita attorno. Poi io leggo un sacco di roba russa di cui non frega niente a nessuno.
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L'articolo Scarlets - via Chat, 25-12-2008 di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2009-01-13 00:00:00
COMMENTI (2)
Belle le tracks in ascolto[:,bravi ragazzi,spero di vedervi presto in concerto!!
wow!