La loro seconda prova è uno degli album migliori di questo inizio 2010, uno di quelli capace di anticipare questa primavera che ci fa penare. Un'ottima scusa per andare a curiosare in casa The Record's. Tre pirati dei Caraibi, Pierluigi Ballarin (voce, chitarra), Gaetano Polignano (batteria) e Pietro Paletti (basso e voce), in partenza dal porto di Brescia alla conquista del mondo intero. Di Renzo Stefanel.
A prima vista sembra che non abbiate neppure un piccolissimo riferimento italiano, neppure per sbaglio. Se fosse così, è molto interessante. È una cosa che compare sempre più spesso nelle nuove band. Come mai? Mi interessa capire perchè i gruppi, oggi, fuggono a gambe levate da tutto ciò che è Italia. Compresa la lingua, dato che cantate in inglese.
Pier: È la domanda che da sempre ci viene posta, alla quale rispondiamo sempre allo stesso modo: cantiamo in inglese perché ci piace farlo, lo troviamo coerente con il nostro background e il nostro immaginario musicale. Non è una fuga, né un rifiuto dell'italianità... Solamente in campo musicale e artistico vanno operate delle scelte ad ogni livello, di sonorità, strumentazione, cantato, estetiche e noi abbiamo sempre optato per ciò che più ci soddisfaceva, che più rappresentava il nostro modo di sentire.
Gae: Ad un orecchio attento però ci sono molti riferimenti sia musicali che di background con la nostra Italia. Da certi arrangiamenti a certe scelte di struttura. Canzoni come "Rodolfo" hanno una forte impronta italiana. Non siamo londinesi né americani.
Ma quanto vi piacciono gli Shins?
Pier: Ci piacciono molto, uniscono una grande abilità nella scrittura ad una fruibilità eccezionale, senza mai cadere in modernismi obbligati e allo stesso tempo rinnovando quanto di classico sta nella loro produzione.
A volte il cantato mi ricorda quello di David Byrne nelle ultime prove dei Talking Heads, solo un po' meno fuori di testa.
Pier: I Talking Heads non sono fra le band che ci hanno maggiormente formato, ma riconosciamo ovviamente in loro un'influenza indiretta.
Gae: La New York di quegli anni ha influenzato tutta la storia del rock fino ai giorni nostri e di conseguenza è possibile trovare affinità. Sopratutto nella vocalità originale di Pietro.
"We All Need To Be Alone" ha sapori twee tipo I'm From Barcelona.
Pier: È un brano che funziona come un messaggio fra me e Pietro, il tentativo di offrire una spalla ad un amico in un momento personale che necessitava di un po' di ironia. Quello che può ricordare non so… Non ascolto molto di attuale, giusto qualcosa ogni tanto per sentire che aria tira...
Ci sono anche spunti Sixties: l'organetto beatlesiano di "Strawberry Fields Forever", sapori Beach Boys, citate i The Byrds nel testo di "Turtles Will Mind Your Fate", c'è in giro un'aria da pop psichedelico barrettiano che si respira qua e là come un profumo; c'è pure la strofa di "Rodolfo" che ha un giro tipicamente soft rock pre-Beatles. Quanto sono importanti i Sixties come riferimento per voi? Anche musicalmente, ma non solo.
Pier: Sono probabilmente la parte preponderante della nostra formazione, sulla quale sono sedimentati il nostro gusto armonico, le soluzioni che adottiamo a livello compositivo e in generale la vena pop che contraddistingue il nostro modo di scrivere.
Ha senso considerare i Sixties oggi? Cioè, ormai non sono il vecchio, la tradizione con cui rompere?
Pietro: A me non sembra di essere citazionista… A parte "Rodolfo" con cui abbiamo giocato volontariamente con le atmosfere Sixties, il resto non discende da un unico ceppo. Le influenze sono molteplici. Lo dimostra la varietà degli stili in quest'album. Ciò che conta è che quando scriviamo lo facciamo in maniera il più possibile per noi originale. Cerchiamo di spingerci oltre noi stessi e le nostre stesse influenze musicali… Per quanto possibile.
Un tema che ritorna spesso nel disco è il desiderio di solitudine. Il massimo è in "We All Need To Be Alone", dove l'ironia è palese già nel titolo ma poi esplode nell'allegro "lalalalala" cantato in coro… Favoloso! Ma è un tema che percorre tutto il disco, no? Anche se non tutte le canzoni.
Pier: Diciamo che per noi è importante mantenere in certe occasioni un isolamento dal mondo esterno e dai suoi subdoli condizionamenti. Allo stesso tempo questo aiuta, ci aiuta a centrare il nostro equilibrio, la nostra autocoscienza e poi a dare il meglio di noi nei momenti critici. L'apparente contraddizione fra il testo e la parte corale è appunto un simbolo di questa nostra ricerca, anche nei rapporti interpersonali nei quali speriamo di trovare al momento giusto i silenzi di cui abbiamo bisogno.
Torna anche il senso di essere prigionieri in un incantesimo... e sottolineo "prigionieri".
Pier: Sì, fare musica è una cosa bellissima, impareggiabile. Allo stesso tempo però porta con sé una serie di prese di posizione, di scelte che possono, appunto, isolare all'interno del proprio percorso, allontanare dagli altri. Questo è l'incantesimo che sappiamo di non poter rompere… Questa cosa va fatta in maniera totalizzante e senza compromessi di sorta, almeno per noi.
Gae: La cosa che dico spesso è che la musica per noi è un'esigenza. Non ci sono calcoli. Siamo prigionieri di questa nostra esigenza.
"I Love My Family" preferisco stare a vivere con la mia famiglia che venire a vivere con te. "La canzone dei bamboccioni", direbbe Padoa Schioppa. C'è un evidente tono scherzoso, ma non posso non pensare a Dente in "Vieni a vivere come me": la differenza tra una sintonia idilliaca e la reale incompatibilità che si scopre spesso quando inizia una convivenza. In breve: che prospettive ha il rapporto di coppia?
Pietro: "Family" è proprio il desiderio di non andare a vivere assieme ad una ragazza! Esternato come uno sfogo! Vivere completamente da solo in un appartamento da due anni è stata un esperienza bellissima dove ho conosciuto di più me stesso. Dove sto imparando ad esser "quasi" pronto per una sana e consapevole convivenza. È una scelta che preferisco fare se sono veramente pronto! Poi io ritorno spesso a Brescia a trovare i miei, mi ricarica… e in questa canzone li dipingo come dei supereroi-psichedelici…
"Panama Hat": che c'entra il titolo in questo quadretto beatlesiano quasi scozzese, che ancora una volta parla di desiderio di solitudine, stavolta anche contro la famiglia, altrove considerata come un rifugio?
Pier: "Panama" è solamente la suggestione immediata che i primi due accordi del brano mi hanno dato la prima volta che li ho registrati… Non chiedermi perché… Parla di una quotidianità semplice, un po' stanca, fatta di gesti che perdono di valore se visti sotto la lente della normalità, ma possono essere elevati a poesia se osservati con distacco emotivo. La famiglia si compone allora di personaggi disegnati, non più le persone con cui viviamo ogni giorno, ma le note del pentagramma delle nostra esistenza.
Un altro tema è il desiderio di pace, di tranquillità, di fuga che a volte si concreta nel sogno di un paradiso quasi vacanziero. Tutto nel mezzo di scene di vita quotidiana. Mi piace, perché sembra diciate che, perse tutte le altre, la guerra da combattere è contro il nostro tran tran: lavoro, rapporti, ideali (come quando dite "I tried hard to be a vegetarian / But I had a lot of fun with pork").
Pietro: Vivere e lavorare a Milano (come per due di noi) è utile e necessario, ma anche frustrante! Evadere è imprescindibile. E quando i mezzi per volare ai caraibi non ci sono lo si fa con il pensiero. Il nostro contatto con la natura è basilare. Rigenerante!
E le sfumature psichedeliche colorano il sogno di evasione di una sfumatura di impossibilità… Come dire, appunto: "solo nei miei sogni". E se si riuscisse a realizzare la fuga, sembra sia solo temporaneamente.
Pietro: È appunto questo il ruolo che attribuiamo alla musica, no? Un'esperienza in grado di ricollegarci con i nostri desideri più veri e che spesso si dimostra molto più tangibile e veritiera della realtà stessa. Ne facciamo uso smodato tutti giorni, quando vogliamo essere rilassati, quando vogliamo sfogare le tensioni, quando vogliamo piangere.
Da dove viene il look alla Pirati dei Carabi?
Pier: È stata un scelta all'apparenza molto forte, ma sulla quale ci siamo trovati tutti d'accordo fin dall'inizio… Lo stile quasi pittorico degli scatti rappresenta molto bene la complessità, il dettaglio stratificato che si può ascoltare nel disco. In generale siamo sempre molto stimolati dal fatto di lavorare con persone (lo styling B.I.G.I.A.I. e il fotografo Matteo Cervati, nostri partner creativi da anni) che danno la loro libera interpretazione ai nostri album. Lo scopo non è mai stato per noi quello di ottenere un risultato oggettivamente legato alla musica , ma di scoprire con sorpresa direzioni spesso trascendenti le canzoni. Vogliamo solo stimolare arte negli altri. Speriamo di farlo ogni giorno.
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L'articolo The R's - via mail, 23-03-2010 di Renzo Stefanel è apparso su Rockit.it il 2010-03-29 00:00:00
COMMENTI (8)
Ehi, scherzavo!!!
"Cattiva" dovevo metterlo tra virgolette...
Bell'intervista, domande non scontate!
Yo!
No, ragazzi... non fraintendetemi... era una battuta! :]
E' solo che l'entusiasmo attorno al vs. disco per me é incomprensibile... ma ci sta, é questione di gusti, e vi auguro le cose migliori...
Bravi records, giusta e pacata reazione. Ora faustiko si sfogherà e cercherà di farvi del male. Che coraggio ha costui a remarvi contro. Mi chiedo il perche? Quando proprio ora meritate e avete bisogno di farvi notare dal grande pubblico! Sono proprio curioso di vedere le domande cattive... cribbio!
Per Faustiko:
Chiedici pure tu quello che vuoi sapere, saremo felici di risponderti.
Pier - The Record's
Te e Klaus ce l'avete proprio coi the Record's...
Bravi ragazzi, dimostrate sempre di avere testa e di non fare le cose a caso! Complimenti davvero tanto! Io al magnolia c'ero alla presentazione, siete stati coinvolgenti e impeccabili!
...ma non c'é nessuna domanda cattiva, cribbio! :)