Marianna Pluda è una giovane autrice bresciana, già nota come voce del duo Red Lines, divenuta producer e polistrumentista a Londra, dove ha avuto modo di vivere la scena locale oltre che seguire un corso di studi specializzato alla Westminster University, maturando così il coraggio e la consapevolezza per intraprendere il proprio percorso solista.
Nell’epoca della fluidità di genere e generi, in un mondo dove il confine fra reale e virtuale è sempre più labile, in uno scenario dove il suono è analogico ed elettronico allo stesso tempo, Voodoo Kid è la perfetta rappresentante di una generazione che gioca con la sua identità liquida: la generazione cresciuta a cavallo tra i millennials e la Z.
Una generazione libera, fluida e genderless che non conosce barriere per l’amore, che non ha paura di mostrare i propri sentimenti, di buttarli in faccia addosso al mondo intero senza vergogna. La libertà è insita nel suo nome: kid è un termine neutro, slegato da ogni appartenenza di genere. Amor, requiem è il suo album di debutto, questo è il nostro racconto.
Suppongo il tuo moniker nasconda anche un significato più profondo.
Sì, è un nome che ho scelto con attenzione, non esclusivamente perché suonava bene. Voodoo, come puoi immaginare, è un chiaro riferimento a Jimi Hendrix che, oltre ad essere un mio idolo, è anche stato una delle mie prime passioni musicali. Il termine Kid, invece, in lingua inglese è una parola senza genere, ma capace di esprimere l’innocenza che credo mi contraddistingua quando faccio musica. Insomma, credo rappresentasse bene il mio mondo: genderless emotivamente, ma anche a livello artistico.
Quando hai deciso di lasciare lo sport per la musica?
Con la musica, come con lo sport, ho iniziato veramente presto. Ma fino all’adolescenza, sicuramente, lo sport aveva ancora una dimensione più “professionale”. Le mie discipline principali erano il karate e, soprattutto, lo sci, quando ho deciso d’intraprendere la carriera da artista ho mollato tutto: tendo a riversare tutta me stessa in una passione. Da Gardone Val Trompia mi sono mossa a Brescia che, per quanto piccola, era una città molto viva (ve la raccontavamo qui, ndr), e in seguito, per seguire il mio sogno, mi sono trasferita in Inghilterra.
Quanto è stato importante studiare all’estero?
Andare a Londra mi ha aperto la testa, dal punto di vista artistico e personale. Sicuramente, non avessi vissuto nella city, ora non farei la musica che faccio oggi. Non sarei nemmeno la stessa persona. Ero partita con la chitarra, fondamentalmente sapevo fare solo quello, e sono tornata che ero una producer e polistrumentista. Londra mi ha dato una spinta verso “il voler conoscere” che indubbiamente ha influito anche sul mio modo di scrivere. Detto francamente, non fossi stata in Inghilterra, oggi non saprei suonare i synth.
È stato più importante vivere la scena, incontrare gente, o compiere un percorso di studi specializzato?
Entrambe, ma sicuramente l’università ha influito parecchio. Do molta importanza alla formazione, in Inghilterra ho avuto modo di frequentare un corso molto specifico, Commercial popular music alla Westminster University. Innanzitutto, ho imparato a usare Ableton, di cui non avevo nessuna nozione, e nel corso del master ho studiato il funzionamento di molti programmi specializzati per lavorare sui parziali della musica e tanti altri aspetti da “nerd del suono” che sarebbe noioso andare a trattare.
Però è assurdo come tua sia partita per l’Inghilterra cantando in inglese e ora…
Passare quattro anni a Londra ha proprio modificato la mia forma mentis. Pensavo in inglese, ancora oggi mi capita di sognare in inglese. Ma già in Italia avevo un atteggiamento ostile verso la nostra lingua. Non avevo mai provato a scrivere in italiano, la barriera della coolness è stato veramente un ostacolo che non sono riuscita a superare per anni. Erroneamente, ora a posteri è facile pensare quanto questi mie pregiudizi non avessero senso. Non ha senso affermare che se Shakespeare avesse scritto in italiano, o Dante in inglese, sarebbero suonati meglio. Ogni lingua ha una sua musicalità, una sua metrica: scrivere in italiano ha cambiato completamente il mio approccio alla musica, è stata una vera e propria liberazione, una ventata d’aria fresca. La prima volta che ho scritto una canzone in italiano l’ho fatto per gioco. Ne è uscita una canzone talmente personale che non ho nemmeno mai pubblicato. Da allora non ho più smesso, ancora prima di tornare in Italia avevo già scritto Come quando fuori piove, ora è una delle mie tracce preferite.
Avendo già una band, perché hai deciso di intraprendere la carriera solista?
Come hai intuito, tendo veramente a dar molto quando credo in un progetto. Non che con i Red Lines non mi sentissi libera, ma ovviamente un duo non è mai un progetto cento per cento personale. Sia chiaro, faccio ancora parte dei Red Lines - forse abbiamo anche qualche novità in serbo - ma credo che la nostra forza risiedesse proprio nell’incontro tra due mondi, tra due persone complementari ma diverse. Ed io avevo la necessità di esprimermi anche da sola.
Ho definito Non è per te una canzone antiboomer. Nel testo parli di un amore moderno, spiegacelo.
Non ci avevo pensato, ma effettivamente lo è. E lo è anche consapevolmente. È una canzone che parla dello scontro generazionale - boomer e baby boomer vs millenials e generazione z- e prova a trattare questa divergenza di prospettive nelle strofe. Il ritornello, invece, ritorna sul tema dell’amore: dell’amore vissuto nelle nuove generazioni, ma visto dalle vecchie.
La quinta traccia, Foxbury Ave. Interlude, tratta una relazione nata dallo stalking sui social, anche questo è amore moderno?
Questa canzone non parla di una relazione, tutto l’album è una relazione, questa canzone tratta il momento di un rapporto non ancora sbocciato in cui una delle due persone diventa ossessiva. Credo sia una fase dell’innamoramento, voler sapere tutto delle altre persone, provare gelosia per una persona che ancora non si possiede. Di cui magari, ancor prima di frequentarla, si conosce già il ristorante o il cocktail preferito. Io in realtà nella vita sono molto “control freak”, ne ho voluto parlare in quanto donna: spesso alla pratica dello stalking si associa un uomo. È una visione sbagliata, io non mi sento completamente donna, crescendo s’impara a capire, a capirsi, crescendo ci si mette in discussione, sia per quanto riguarda la sessualità sia per come ci si sente a livello personale. Foxbury Ave. voleva essere anche un’ammissione di colpe: anche noi siamo così. Nel 2020 ormai ci sono così tanti generi che non ha senso scegliere, nella musica come nell’emotività. Ovviamente la mia canzone non sta parlando del vero stalking, quello perseguibile penalmente, ma malsana abitudine di provare a saper tutto degli altri che ha preso piede con i social. Alla fine i due quagliano. Ci sono aspetti brutti anche nell’amore moderno, qual che rimane che chi persevera, alla fine, vince.
Da Goodbye a Tvb, per tutto l’album aleggia una visione cupa dell’amore, puoi spiegarcela anche in relazione al titolo scelto?
Il titolo dell’album contiene in sé un grande dualismo: la parola “amor” che porta naturalmente a pensare alla vita, e “requiem”, chi induce all’opposto. Il titolo voleva anche identificare un percorso che parte dalla prima traccia e si conclude con l’ultima. Io non ho paura delle morte, credo sia un momento fondamentale della vita. Ed è la morte che, nei ricordi di tutti, ci rende immortali. Non volevo fare un discorso religioso sulla morte come massima resurrezione, ma non parlo solamente della morte fisica: l’album, più nello specifico, racconta la morte di una storia d’amore. Ci sono momenti in cui bisogna accettare l’abbandono, lasciare una persona ci fornisce la possibilità per intraprendere un nuovo percorso. E, di conseguenza, una nuova rinascita.
Mentre in Ghiacciai c’è un nesso tra “il nascondere la polvere sotto il tappeto” tanto nelle relazioni quanto a livello ambientale?
Penso, ad esempio, a chi si ostina a negare gli effetti del cambiamento climatico. Lo sai che sono calda su questi topics, insomma, non volevo dare un taglio ambientale alla canzone, ma sicuramente era mia intenzione mandare un messaggio. Quindi certo, il ghiaccio che si scioglie non è letteralmente l’iceberg che decomponendosi innalza il livello del mare, è una metafora dello scioglimento emotivo. E, ahimè, almeno in quella traccia, io recito il ruolo del riscaldamento globale.
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L'articolo Voodoo Kid, senza generi nella vita e nella musica di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2020-11-20 14:06:00
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