Emiliano Masi, classe '91 è il nuovo volto, e uno dei principali artefici della nuova scena varesina. Una scena che, a dir la verità, fino a qualche anno fa nemmeno esisteva. Se Amarcord, curata dal fenomeno del beat Fight Pausa, metteva in luce la parte più disincantata del rapper, Boddah, prodotta da Xqz (artefice delle strumentali di alcuni brani culto di Massimo Pericolo), invece, risalta il lato più paranoico di Wasi.
"L'odio ci unisce, l'amore divide \ Ma è l'empatia quella che mi uccide \ Son primo in tendenze, in tendenze suicide"
Il titolo della canzone è un chiaro riferimento all'omonimo amico immaginario di Kurt Cobain cui il cantante indirizzò la sua ultima lettera prima del suicidio. Il singolo dell’artista varesotto e la lettera d’addio del leader dei Nirvana trattano entrambi il tema dell'empatia, valore umano che può rivelarsi una condanna. Ma senza la quale oggi non staremo parlando di una scena del Brebbia.
Perché hai scelto questo nome?
È una storpiatura del mio cognome, Masi. Ho più o meno fatto lo stesso giochino della Nintendo con Wario, la controparte cattiva di Mario Bross. Cattivo però non è il termine più appropriato, è un espediente per esprimere la mia parte più oscura, non mi sentirei così libero col mio vero nome. Ed è proprio questo il punto: quando non scrivo col mio vero nome mi sento libero di raccontare il cazzo che voglio.
Immagino non vivrai ancora di rap. Cosa fai nella vita?
Sono operaio in un’azienda che produce ganja legale. Mi piace, ma è un bello sbatti. Al di là del lavoro, ora sono in zona rossa, non è che pratichi chissà quali attività. Bevo molto, devo ammetterlo. Ecco, in un periodo normale questo è quello che faccio solitamente: lavorare, staccare e andare al bar.
Come ti sei approcciato alla scrittura?
Sicuramente l’ambiente che frequento, le situazioni che ho vissuto, mi hanno spronato. Non mi riferisco solo al rap, sono circondato da una gabbia di matti. Ciò detto, da “bocia”, intorno ai sette anni, ero già preso benissimo con gli Articolo 31: li passavano in radio e mi regalarono la cassettina di Nessuno. La prima vera illuminazione, però, l’ho avuta intorno ai quattordici anni, quando è esploso Fibra: in quel momento ho veramente capito quando il rap fosse fico. Ho capito che volevo fare quello da grande e ho iniziato a cimentarmi con i primi freestyle. Quando ho cominciato veramente a scrivere non sapevo nemmeno cosa stessi facendo, non sapevo cosa fosse una barra, un bridge, semplicemente scrivevo, scrivevo a ruota libera.
Quel che emerge dai tuoi video e dai tuoi testi è un immaginario malato, un po’ tossico, tipo quello della prima DPG o della FSK, ma quel che a mio avviso rende molto più reale il tuo racconto è la mancanza di celebrazione.
Quando ho iniziato ho conosciuto Kaso, Vigor e tutto quel movimento di local hero fondamentale per la scena varesina: l’importanza della “realness” ce l’hanno veramente inculcata loro. Mi sono sempre attenuto alle regole che mi hanno insegnato, anche se ho cercato di rivisitarle in una chiave che non fosse più moderna nel sound quanto nei temi, che rispecchiasse la vita di un ragazzo di un’altra generazione. Sono cresciuto con questo culto, mantenersi fedeli al principio della realtà, non potrei mai cantare “che sono un fico, che ho i soldi”. Quella roba non mi appartiene.
Siete la wave della disillusione?
Non abitando a Milano non potevamo che viverla così, a Varese c’erano giusto due eventi e il pubblico era composto esclusivamente da altri rapper che “non si volevano gasare la roba”. Pubblici formati da 20-30 persone, tutti rappusi e presi male, noi non avevamo proprio l’idea che qualcuno di noi potesse esplodere. C’era anche dell’astio, non c’era unione. L’unica alternativa era fingere totalmente oppure, vivendo realmente quella situazione - e capendo ben presto che non esistevano sbocchi - smetterla di farsi delle seghe mentali.
Però ora si può dire esista una vera scena varesina?
Credo di sì, e credo gli albori della scena fossero già ben saldi prima dell’esplosione di Vane (Massimo Pericolo). Con la mia crew, Stato Brado, stanchi di questa situazione, abbiamo creato un evento, Six Feet Deep, che qui a Varese è diventato abbastanza di culto, cercando di dargli un’atmosfera più festosa. Arrivava gente da tutta la provincia. Ora, con questa storia del covid si è fermato tutto, ma sicuramente la situazione negli ultimi anni è cambiata in meglio: ora esiste una vera scena perche esistono delle crew, esiste un’interconnessione tra tutti i rapper delle valli.
Perché hai deciso di “dedicare” una canzone all’amico immaginario di Kurt Cobain? È un artista che ha avuto influenze sul tuo percorso?
I Nirvana, più che Kurt Cobain, mi sono sempre piaciuti. Il grunge mi ha sempre colpito, più che per i suoni per l’immaginario. Il titolo della canzone invece è stato scelto quasi casualmente, è venuto a posteri. Era un periodo in cui ero particolarmente preso male, depresso, una notte in cui non riuscivo a dormire ho preso il cellulare e mi sono messo a scrivere. La mattina ho contattato il mio produttore e il testo è diventato una canzone. Ma non aveva ancora un titolo. Nei giorni seguenti mi sono imbattuto per caso in un documentario sui Nirvana e ho notato che nella lettera di addio di Kurt Cobain c’erano molti punti in comune col mio testo. Alla fine ho pensato Boddah fosse il nome più appropriato.
Musicalmente, invece, a chi ti ispiri?
Sono un mega fan della Odd Future. Ci sono andato veramente sotto fin dai suoi albori: mi ricordava il Wu-Tang Clan, che non ho mai vissuto, perché era un movimento coeso, con un sacco di gente sul palco, seppur con dei suoni diversi. Sono un mega fan della Odd Future, rispetto il lavoro di Frank Ocean, ma sono veramente innamorato di Tyler The Creator, del suo immaginario malato ma anche molto mentale. E, anche ora che il suo stile si è evoluto in un sound molto più melodico, rimane uno dei miei artisti preferiti. Mi piace Kendrik, ovviamente, perche anche lui riesce a essere inerente a quel tipo di filosofia, senza per questo essersi mai fossilizzato nel boom bap. Senza rompere i coglioni, senza relegarsi all’undreground, sfornando hit che spaccano il culo anche al più “old” degli Mc. Un’altra wave che apprezzo è la nuova scena che mischia il rap alle sonorità punk e metal.
Nessun italiano?
Ultimamente sono tornato ad ascoltarmi roba vecchia americana. Di italiano ascolto poco, e non vorrei citarti i soliti Fibra e Club Dogo. Tra gli artisti nuovi, il mio preferito è sicuramente Pufuleti: è il più stiloso di tutti e l’immaginario che si è costruito mi piace tantissimo. Poi, non ci crederai, sono mega in fissa con Bello Figo, ovviamente mi fa ghignare, ma fossi un americano che non capisce le parole lo troverei comunque stiloso. Il modo in cui usa la voce, i flow che caccia fuori, la capacità di prenderci per il culo, secondo me è uno dei rapper più sottovalutati.
Il sound che ti contraddistingue non è puramente rap, in quest’ottica, credo i tuoi producer ti siano stati d’aiuto.
Sì, io lavoro principalmente con Crasto, che è il producer della mia crew, con XQZ, che è un mio storico amico e ha prodotto anche qualche pezzo di Vane, ed ho lavorato con Fight Pausa, che ultimamente sta spaccando. Carlo ha un gruppo, i 72 Hours Post Fight, con i quali fa musica sperimentale tra il jazz e l’elettronica. Sicuramente mi hanno aiutano ad avvicinarmi a quell’immaginario alla nuovo-Tyler che ti ho appena citato. Non sto cercando di paragonarmi a lui, ma insomma, un giorno mi piacerebbe fare un album rivestendo il ruolo del direttore d’orchestra. Un disco in cui le sonorità rimarranno principalmente black, ma l’approccio al rap sarà più suonato, in cui il rap sarà presente, ma come parte di un discorso artistico più evoluto. Per ora è ancora presto, magari a breve uscirò con un nuovo singolo.
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L'articolo Stato Brado, un'armata di rapper tra le valli varesine di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2020-11-30 14:00:00
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