Mettere il cuore nelle canzoni ma aspirare ugualmente ai passaggi in radio, con la speranza che le ascoltino più persone possibili. Perché sentire la gente che canta insieme a te - non importa che sia uno stadio intero o una piccola sala da concerti - è qualcosa di unico; probabilmente è la cosa più importante di tutte. Abbiamo incontrato Wrongonyou in un bar di Roma, abbiamo parlato dell’ep appena pubblicato, "The Mountain Man", e del suo prossimo album che ha registrato a Los Angeles con il re mida del pop Michele Canova. E poi di Justin Bieber, di Michael Jackson, del suo contratto con la Carosello e di quanto sia importante per lui fare il musicista.
Possiamo dire che se oggi esiste Wrongonyou è tutto merito di John Frusciante?
Quando avevo diciotto anni ascoltavo i Sepultura, poi ho scoperto i dischi di John Frusciante e mi hanno aperto un mondo. Nei primi due album era sotto con l’eroina, li puoi considerare delle vere e proprie richieste d’aiuto, ma avevano dei pezzi fantastici. Mi faceva impazzire il fatto che le canzoni, anche quelle più orecchiabili, non avessero un ritornello o quanto meno una struttura fissa. Mi hanno ispirato molto.
Io ti vedo meglio in mezzo ai rapper che ai cantautori, sai?
Dici per come mi vesto?
Direi più per quel tipo di energia con cui coinvolgi il pubblico durante i concerti.
Mi piace molto l’hip hop, l’ultimo disco di Kanye West lo ascolto almeno una volta al giorno, idem quello di Post Malone, ma quell’atteggiamento che intendi tu, in realtà, è solo una genuina voglia di condivisione. Mi piace che la gente canti insieme a me, non per forza devono essere delle mie canzoni, può anche essere una cover. Mi piace proprio l’idea di coro, l’idea che siamo tutti insieme nella stessa stanza. Mi piace creare quel momento così intimo.
Spesso ti dipingi come un montanaro solitario, in realtà non mi sembri così timido.
L’uomo della montagna non è mai timido. Pensa che in America vengono considerati montanari quelli che vivono nel south ed è gente bellissima. È gente che vuole proprio tirarti in mezzo, da qui deriva l’espressione “l’ospitalità del sud”. È la gioia di cantare una canzone tutti insieme.
E se invece fosse uno stadio intero che canta?
Ma magari, sai che figata! C’è un video degli Snow Patrol all’Oxygen dove fanno “Run" e tutto il festival la canta all’unisono. Vedi Gary Lightbody che se ne rimane lì, meravigliato e ti fa questo sorriso stupendo. Ne ho visti di concerti e so distinguere un sorriso sincero da uno finto. Il sorriso sincero ce l’ha Bruce Springsteen, Ben Harper, o quei musicisti che quando sono sul palco sanno comunicarti davvero cosa provano in quel momento. E poi c’è il sorriso di Justin Bieber o di Ed Sheeran che, nonostante le loro canzoni mi piacciano molto, sono pur sempre solo delle macchine per far soldi.
Facciamo in passo indietro, quando hai iniziato a scrivere canzoni?
Poco più di due anni fa. Ero tornato dal mio primo viaggio in America, c’ero andato con il mio gruppo di allora, facevamo funk tipo James Brown, George Clinton, Funkadelic. Quando sono tornato dall’America - che era gigante, era bella e tutto sembrava possibile - mi sono ritrovato nella mia cameretta sfigata, con il computer scassato e niente da fare; mi ha preso una brutta depressione e ho mollato tutto.
Che lavoro facevi ai tempi?
Studiavo inglese e seguivo Storia dell’arte all’università. Avevo iniziato a lavorare nei musei, era anche un buon lavoro ma mi sono preso male e sono stato chiuso in camera per mesi. Poi un giorno, di colpo, mi sono sbloccato: stavo guardando l’”Avvocato del Diavolo”, quello con Keanu Rives e Al Pacino e, non ricordo più bene a che punto del film, ho avuto una specie di illuminazione. Ho preso la chitarra acustica e ho scritto “Man”, il mio primo pezzo in assoluto.
Che parla di un tuo amico scomparso anni fa.
Esatto. Era un amico che vedevo tutti i sabati, poi entrambi abbiamo cambiato giro e lui è finito in uno di quelli brutti. Raramente inserisco persone realmente esistite nelle mie canzoni. “Rodeo”, ad esempio, l’ho scritta mentre guardavo “Dallas Buyer Club”, ogni volta che la canto mi immagino Matthew McConaughey secco come un chiodo che sbanda con la macchina. “Killer” invece parla di un assassino, è come se fosse una sorta di alter ego.
Perché mettersi nei panni di un assassino?
Parla di un serial killer che si innamora di una ragazza ma, nonostante lui senta davvero qualcosa per lei, non riesce a resistere all’istinto di ucciderla. Per la prima volta nella sua vita, però, prova il rimorso per quello che ha fatto. È una canzone che parla di quella linea sottile che c’è tra il piacere e l’egoismo. Lui l’amava ma non ha resistito a soddisfare un suo piacere personale, uccidendola si è reso conto che era andato troppo oltre e che c’era anche qualcos’altro oltre alle cose che normalmente lo facevano stare bene.
E cosa c’è di te in tutto questo?
Non mi piace uccidere la gente, se è questo che intendi (ride). Come ti dicevo prima, ho scelto di fare Wrongonyou per me stesso, ma mi rendo conto che la cosa non debba esaurirsi nel puro egoismo. È quella linea sottile, piccolissima, tra capire cosa ti serve per stare bene senza smettere di pensare agli altri.
In "The Lake” c’è questa ambivalenza strana tra un’atmosfera intima e un ritmo più allegro, quasi da festa.
In realtà l’ho scritta proprio con l’intento di creare un clima di festa. Nelle mie canzoni c’è il dolore, quello profondo e personale, ma mi interessa anche che emerga un lato più pop. Per questo mi sono affidato a dei produttori, non posso ancora permettermi di produrre un intero disco da solo.
Perché no?
Io ci metto la musica e le parole ma vorrei che tutti potessero ascoltare cosa ho da dire. Mi rendo conto che si può cadere nella mitomania, e non è nemmeno una questione di soldi, ma voglio fare questo nella vita. Non riuscirei mai a fare il benzinaio o l’impiegato alle poste. Con tutto il rispetto per chi fa questo lavoro, io starei malissimo senza suonare. Per questo serve qualcuno che riesca a prendere le mie idee e gli dia una cornice adatta anche per le radio. Non lo considero nemmeno un compromesso, perché io il cuore ce l’ho messo e cosa è uscito mi piace, ma sarebbe sbagliato non tentare questo salto.
Sarai consapevole che cantando in inglese è quasi impossible raggiungere il grande pubblico in Italia.
Lo so ma, come non riuscirei mai a fare il benzinaio, starei male se dovessi cantare in italiano. Ci ho provato, me l’hanno già chiesto, anche come autore, ma non ci riesco. Non importa quanti soldi fai ma hai bisogno di qualcosa che in qualche modo t’appartenga. Sono cresciuto con Neil Young, Ben Harper, gli America, quando ero piccolo mia madre me li faceva sempre sentire in macchina.
Da piccolo che lavoro volevi fare?
Il pompiere.
Qual è requisito fondamentale per una canzone?
Deve emozionarmi, sembra una risposta banale ma è così. Non so mai di cosa parlerà una canzone, l’importante è evitare di pensare e fare tutto di pancia e di cuore. Comincio a cantare e mi immagino i paesaggi, gli animali e altre figure simili. Di solito ci metto non più di 10 minuti a scrivere una canzone. Nel prossimo disco parlerò di molte cose: della natura, della vita, della morte e della famiglia.
E come l’affronti il tema della famiglia?
Passaparola (ride).
Il nuovo album l’hai registrato a Los Angeles con Michele Canova, come è andata?
È stato lui a cercarmi, ancora prima che firmassi con la Carosello. È un vero big della musica, molti suoi dischi mi sono piaciuti parecchio - “Safari” di Jovanotti, tra tutti - ma è stata dura. È un produttore che pretende molto, è abituato a lavorare con i session men e mi teneva sempre sotto pressione dicendomi cose tipo “capisco che non sei un professionista, ma sbrigati” o “Tiziano Ferro a 18 anni l’avrebbe fatta molto meglio di te”. Era molto esigente ma ha funzionato, alla fine tutte le take erano buone al primo tentativo. Sono cresciuto molto.
E com’è fare il musicista a Hollywood?
(ride) Era tutto molto tranquillo, la Carosello aveva affittato una casa a North Hollywood, sono stato trattato bene ma non ti immaginare il lusso più estremo. Ovviamente stanno investendo molto su di me, a maggior ragione considerando che hanno sempre fatto cose in italiano, come lui (indica gli altoparlanti del bar che trasmettono Vasco Rossi, NdA) e io sono il primo loro artista che canta in inglese.
Ma a te il pop piace?
Avoja. Lo ascolto per piacere ma anche perché mi interessa capire quale possa essere la formula alla base di un successo. Mi piace, ad esempio, analizzare Michael Jackson e cosa c’era di magico nella sua musica. A Los Angeles ho avuto la fortuna di conoscere Dave Pensado, il fonico che ha registrato “Thriller”, e abbiamo passato tutto il tempo a parlare della maracas che senti all’inizio di “Billie Jean”. Sono tutti dettagli che possono sembrare insignificanti ma che davvero possono far svoltare un brano.
Di musica italiana ne ascolti?
Mi piace molto Battisti, l’ho sempre considerato il Bon Iver italiano. Se prendi “La Collina dei Ciliegi” è perfetta per un mash-up con Bon Iver, ha un La minore clamoroso. E poi Claudio Villa, o Modugno, prova ad ascoltare la canzone “Cavaddu cieco della miniera” e ti sembrerà un brano folk dei nostri giorni. Tra i nomi più recenti mi piace molto Levante, Francesco Motta e Niccolò Fabi, il suo “Una somma di piccole cose” è veramente fantastico. È riuscito a far entrare le parole italiane nelle metriche del folk americano. È il suo “Nebraska”, è un album perfetto e l’ha pubblicato nel momento giusto, appena dopo il tour con Gazzè e Silvestri. Dopo tanto clamore era giusto tornare con quel tipo di intimità.
Che rapporto hai con la tua voce?
Direi buono, ora sto imparando a dosarla meglio. Durante il primo tour dopo i concerti mi svegliavo ogni mattina completamente afono, ora invece faccio degli esercizi di riscaldamento e riesco a impostarla meglio. Il mio lavoro è diventato più serio, e così devo essere anch’io.
Qual è l’aspetto in cui sei meno bravo?
Nonostante in molti mi considerino un cazzaro, sono abbastanza preciso e puntuale. Vorrei imparare ad essere più morbido con chi lavora con me, magari ci sono delle piccole differenze di opinione e subito mi irrigidisco.
Immagino che questo per te sia un periodo piuttosto stressante.
Stressantissimo. Pensa che solo tre giorni dopo aver firmato con l’etichetta mi sono trovato sul palco dell’Alcatraz di Milano in apertura a Levante e con 3.000 persone davanti. Hai presente la scena dell’artista che vomita prima di salire sul palco? A me è andata esattamente così. Ero talmente nervoso che ho firmato il borderò Marco Zilli al posto di Marco Zitelli. Diciamo che prima ero fermo o magari camminavo appena, ora mi sono messo a correre.
Sei sempre stato convinto che questo sarebbe stato il tuo mestiere?
All’inizio non avevo le idee così chiare, poi mi sono dato una scadenza: se a ventisei anni non cambia niente lascio perdere. Li ho compiuti il giorno che tornavo a Roma da Los Angeles, ho passato il compleanno in volo. Per me stato un segno importante, una sensazione bellissima. Non posso dire che ce l’ho fatta, né che sia un musicista di successo ma mi sono posto un obiettivo e l’ho raggiunto. Se poi tutto andrà male, qualcosa mi inventerò ma ti assicuro che non ce la farei a stare senza la musica, ne morirei. Quando sono in tour la mattina sono sempre distrutto, poi ad ogni concerto rinasco. Mi dico: ma allora riesco davvero a trasmettere qualcosa alla gente. Per me è quello l’importante.
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L'articolo wrongonyou - Da Grottaferrata a Los Angeles: la storia di Wrongonyou di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2017-01-05 10:24:00
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