La doverosa premessa da fare per spiegare come nasce questo brano è la seguente: viviamo in una società fondata sull’adorazione del cheap. Cioè del basso costo, del minimo investimento e, soprattutto, dell’usa e getta. E non sto sicuramente rivelando niente di nuovo. Ma, quando ho scritto questo brano, mi sono trovata a riflettere tanto su come questa cosa influenza anche il nostro modo di avere a che fare con gli altri. Coi quali la tendenza è sempre di più quella di vivere rapporti usa e getta. Siamo nell’era delle situationship, del dating ciclico, della pretesa di avere rapporti con tutti i connotati di una relazione sentimentale, in cui però se ti azzardi a parlare di definire la relazione trovi l’altra persona che sta già facendo un biglietto di sola andata per il Perù.
E se questo non è il concetto di low cost applicato alla sfera relazionale-emotiva, non so proprio cos’è. Oltre che una piaga contemporanea per chi annaspa ancora tra conti della terapia e il domandarsi “ma perché trovo solo casi umani?” . E la risposta che mi sono data io è che c’è tanta gente che ha interiorizzato questa cosa del minimo investimento, al punto che tendiamo a scegliere sempre ciò che è facile, accessibile e consumabile. La scadenza smette di fare paura se il prodotto è sostituibile, no?
Ed è dopo un po’ di cicli di frequentazioni iniziate bene, proseguite in modo un po’ strano e finite male che è venuta fuori Low Cost. È stato uno di quei brani che ho buttato fuori tutto assieme, nel giro di un’ora e mezza avevo quasi tutto il brano. Che per me è una rarità, perché tendo molto all’autogiudizio, al mettere in dubbio ciò che scrivo e come lo scrivo, ma Low Cost è stata un’espressione sincera, tagliente e ironica del mio sentirmi intrappolata in un pattern.

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