Descrizione

I Miss Mog sono un gruppo che non sai bene come prendere. Apparentemente potrebbero sembrare l'ennesima formazione synth-pop, con peculiarità tipo quella di non amare i bpm troppo accelerati ma di giocarsela su variazioni raffinate di un suono gustosamente vintage, di prediligere un songwriting d'alta fattura, spesso velato d'ironia, e di cercare trovate melodiche capaci di infilarsi in un attimo sottopelle.

Poi, ascolto dopo ascolto, dalle loro canzoni emerge un carattere da osservatori attenti, quasi da entomologi sociali verrebbe da dire, che fa di “Federer” una piccola grande raccolta di fotografie in formato canzone del nostro presente, con il beat che spinge quanto basta, giù lungo il crinale esistenziale delle vite di ognuno.

Poiché in fondo di questo parla “Federer”: di noi, come individui e come collettività. E lo fa con una leggerezza pensante che – anche grazie alla produzione di Beppe Calvi – diventa arguzia di dettagli e strutture popular architettonicamente calcolate su un suono ricco di tastiere e sequenze che sa essere retrò e anche moderno (anzi: modernista). Ma pure abilità nel costruire canzoni che ti ritrovi a cantare in automobile o sotto la doccia e scopri che parlano di te e in fondo ciò non è poi tanto bello. Tutto questo, beninteso, senza alcun moralismo, ma con la consapevolezza che, appunto, un po' di consapevolezza, ora come non mai, è necessaria.

Del resto il primo disco sulla lunga distanza dei Miss Mog (che arriva a un anno dall'ep “Tutto Qui” e ne riporta quattro pezzi) si intitola “Federer” non perché il tennista svizzero sia in se un personaggio positivo, ma perché tirate le somme è lui, quasi imbattibile, uno dei pochi miti dell'oggi, uno di quelli che tutti nascostamente hanno creduto o sognato di battere – il che costituisce il vero privilegio.

I Miss Mog, in altre parole, raccontano del nichilismo a bassa intensità di una generazione, quella dei trenta-quarantenni, che non è riuscita a fare alcuna rivoluzione e tutto sommato si adegua ad un mondo dove il gossip domina e qualsiasi prospettiva di cambiamento di uno stato delle cose indecente si risolve in una rimessa a nuovo della propria identità in dissolvenza attraverso una dieta (“Complesso B”).

“Torino, sette e mezza del mattino” sono le prime parole della traccia iniziale “Un Pomeriggio” (storia di droga e autoerotismo che diventa scoop) cantate da una voce tenuta volutamente tiepida – ma acutamente raddoppiata quando si tratta di tirare la stoccata letale. “Voltati adesso, sai chi sei? / Emergi dall’abitudine / Resteranno soltanto le gocce” sono le ultime di “Sulle punte”. E già solo queste due manciate di versi basterebbero a tracciare il percorso di un disco che racconta la degenerazione della provincia (“Venety Fair”), l'isolamento di massa (citando in “Pangea” John Donne e Michel Houellebecq), l'indolenza di chi avrebbe tutti i motivi per ribellarsi e invece non è in grado nemmeno di spaccare una panchina come si deve (“Panchine divelte”) ma si trincera dietro scuse in forma di incubo (“L'alibi”) e conformismi (“Razorology”) mentre la condizione umana è già di per sé un continuo errare (“Faust” ispirata dall'omonimo film di Aleksandr Sokurov) pieno di situazioni imprevedibili (“Meteoritmo”).

“Federer”insomma è tutto questo: un disco di songwriting electro come raramente capita di incontrarne che ha la leggerezza di una piuma dai colori settantiani e che si posa sulla nostra pelle sfregandola come in una tortura esistenzialista malinconica e confortante, ironica e dolceamara, ma sempre così (terribilmente) pop.

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