Sindrome di fine millennio lo conosco da quando sono adolescente, è uno di quei dischi che non puoi non aver ascoltato se sei stato almeno per una volta giovane, arrabbiato e pervaso da quella sensazione di horror vacui che ti prende quando meno te l’aspetti. Sindrome di fine Millennio è uscito nell’ottobre del 1999, a pochi mesi dalla fine del novecento, ma è rimasto per vent’anni intatto, lucido, tagliente.
Vent’anni fa la seconda generazione dell’appena nato rap italiano muoveva i suoi primi passi nel mondo della musica; si portava addosso quello che erano riusciti a fare persone come i Sangue Misto, Sottotono, Articolo 31, Radical Stuff, Bassi Maestro e una cosa sola li accomunava: la voglia di fare la differenza. E’ proprio dopo questo momento qua che arrivano un ragazzo che si chiama Fabrizio Tarducci e un altro di nome Nicola Latini, per molti Fabri Fibra e Dj Lato, per tutti in quegli anni gli Uomini di Mare.
Si racconta che erano anni strani per il neonato rap, anni di transizione dove il pubblico di questa nicchia era fin troppo in competizione con gli artisti che ne facevano parte, era un genere nascosto che aveva voglia di raccontare un sacco di cose e stava imparando piano piano come farlo. L’hip hop era una cultura, lontana dall’immaginario sociale che pervadeva lo stivale italiano, veniva da oltreoceano e parlava di ribellione, di strada e sopratutto di riscatto, lo stesso riscatto che nel corso della storia di questo genere è diventato vanto da mostrare attraverso l’estetica, il lusso e la rivincita personale.
In Italia si cercava di dare un’originalità a questo nuovo movimento musicale, ognuno avevo il suo stile e copiare le rime di qualcun altro era cosa impensabile: nessun clone, nessun simile. Con il rap italiano di quegli anni si cambiava la lingua, il modo di comunicare perché si inventava un vero e proprio linguaggio che doveva essere riconoscibile, fresco, nuovo e cosa ben più importante non doveva avere niente a che vedere con i colossi che si ascoltavano dall’altra parte dell’Atlantico. Quella strana sensazione di cambiamento e rivoluzione che contraddistingueva la fine di un secolo portava la speranza di tempi diversi e la paura di quel che effettivamente sarebbe stato, si scappava dalla provincia per inseguire sogni, si inziava a pensare in grande ed è da tutto questo che nacque anche questo disco.
Sindrome di Fine Millennio vent’anni dopo ha la stessa presa e lo stesso retrogusto bitter sweet che lo ha caratterizzato alla sua nascita; ma come dev’essere stato essere un giovane ragazzo di provincia, all’alba del duemila con il grande sogno del rap? Qualche giono fa l’ho chiesto direttamente a Fabri Fibra, la penna e la mente dietro a quel piccolo capolavoro che due decadi fa, senza sapere che sarebbe rimasto nella storia, pubblicò 18 tracce con l’incoscienza di chi lo fa perché sa che è semplicemente giusto farlo. Ecco cosa mi ha raccontato.
Da che cosa è nato e sopratutto come è nato Sindrome di Fine Millennio?
E’ nato dalla mia voglia di affermarmi in quegli anni all’interno della scena rap italiana che era alla sua seconda generazione, quindi noi avevamo vissuto quell’entusiasmo e quella grossissima energia che si sentiva, figlia della prima generazione che erano poi gli Articolo 31, i Sangue Misto e i Sottotono, che sono stati i primi a fare il rap italiano e portarlo al grande pubblico.
"Di sogni persi a dozzine, mattine senza fine/ nati per scrivere, creati per far le rime/ non mi rattrista l'idea di essere al confine/ se questo modo è l'ideale a parlare di me."
In "Entro il 2000" si dice "entra nel nuovo millennio con me: buona fortuna!" e in "Uno su dieci" si parte con "questo è il vento del futuro, ma sei in vita?" o "per i ventenni paranoie perenni" in "Il domani è oggi": come si affacciava all'anno 2000 un ragazzo che faceva rap?
Il rap italiano oggi è riconosciuto come una genere musicale, come un business, è stato completamente sdoganato anche grazie ai social network che hanno proprio globalizzato la comunicazione e le mode; per esempio oggi quello che va di moda a Milano va di moda anche in Canada, dal vestirsi in un certo modo richiamando l’urban, la strada, l’indipendenza, tutto quello che caratterizza poi l’hip hop, il rompere le regole. Mentre noi in quegli anni vivevamo il rap italiano come una grossissima novità, in mezzo al rock, ai postumi del grunge, in mezzo alla techno, in mezzo a mille altri generi che erano più forti del rap, noi avevamo trovato il nostro linguaggio; inoltre questo si univa alle nostre età, avevamo tutti tra i 20 e i 25 anni, quindi avevamo quell’energia e quella voglia di crescere come volevamo noi. Volevamo diventare bravi a fare questa cosa e tutto questo si univa a una frenesia e una strana emozione data dall’arrivo del duemila, dove tutti dicevano che sarebbe cambiato il mondo. E sapevamo che non era vero, ma c’era questa illusione e questa energia nell’aria: i testi di Sindrome di Fine Millennio hanno cavalcato letteralmente quest’onda.
Da un punto di vista strettamente musicale, cosa vi aveva lasciato ed insegnato la vecchia scuola che diede vita all'era del rap italiano pochi anni prima?
Sicuramente ci ha insegnato ad essere originali, in quegli anni non potevi fare una rima che era stata già fatta da qualcuno, oggi il discorso è molto diverso. In quali anni lì dovevi essere estremamente originale, questa cosa magari poteva essere soffocante per certi aspetti, però allo stesso tempo spingeva tutti a trovare il proprio stile. Questa è una forte caratteristica che ci aveva dato il primo rap.
Quale disco della golden age del rap anni '90 ha ispirato o influenzato la nascita di Sindrome di Fine Millennio?
I dischi che hanno influenzato Sindrome di Fine millennio sono stati sicuramente SxM dei Sangue Misto, il disco più importante del rap italiano degli anni ’90 e Sotto Effetto Stono dei Sottotono, i Sangue Misto avevano un suono più metropolitano, scuro, come il rap di New York però è stato il primo tentativo di rap East Coast veramente credibile, i Sottotono avevo invece più influenze della musica di Los Angeles la famosa West Coast che a noi piaceva perché stavamo al mare, mentre la maggior parte dei rapper venivano da Milano o da Roma che erano le metropoli che richiamavano il rap di New York.
In più di una traccia si fa riferimento all'America e alla sua cultura, cosa si pescava ancora da oltreoceano per trovare ispirazione?
Il mio modo di riferirmi all’America è sempre stato molto critico; essendo un genere musicale che non abbiamo inventato noi ma lo stiamo semplicemente riproponendo io ho sempre cercato di prendere degli elementi più italiani possibili, non ho neanche mai usato parole in inglese; quello che arrivava dall’America era la ribellione, sia come testi sia come musica, il cercare di fare qualcosa di più diverso possibile di quello che girava in radio.
"Ma dove corri non siamo a Manhattan?"
"Verso altri lidi" è un pezzo che soltanto un giovane di vent'anni come te all'epoca poteva scrivere, quale impulso ha fatto sì che prendesse vita?
Ti ringrazio per questa osservazione su questa canzone, ma ti confesso che quel pezzo è nato da totale ingenuità nello scrivere in quegli anni, non avendo un pubblico e non avendo pressioni mi arrivavano queste cassette di Dj Lato dove c’erano queste strumentali e io scrivevo senza pensare che qualcuno mi avrebbe ascoltato. Quel testo lì, quel ritornello, quel concetto lì parte da una voglia di uscire dalla provincia,; Verso Altri Lidi era un fantasticare di andar via verso qualcosa di più soddisfacente per le nostre vite, la vita in provincia era piuttosto limitata, io sognavo di andare chissà dove.
"Benvenuti nel violento" raccontava il '99 e suonava allo stesso come una profezia di quello che ci avrebbe aspettato in un futuro non definito. Quanto di quella canzone si è effettivamente avverato secondo te e cosa invece non è cambiato?
E’ vero, è un pezzo che effettivamente suona come una profezia, ma perché si sentiva che la comunicazione stava diventando sempre più violenta, anche nei film, a metà degli anni ’90 era arrivato Tarantino con Pulp Fiction e la sensazione era che tutto stava andando verso un po’ quella direzione lì perché erano territori inesplorati dove ci sarebbe stata attenzione, dove sarebbero girati i soldi, l’intrattenimento sarebbe diventato più violento. Oggi la comunicazione è completamente violenta, la politica è violenta, il linguaggio è violento, no? Quindi credo che si sia avverta in tutto e per tutto quella canzone.
"Il calciomercato, il cinema, il Titanic, è un mondo clonato/ punto magico, il doppio fluido di un aminoacido-acida/ che ti invadiamo la città"
Come mai pensi che vent'anni dopo la sua pubblicazione Sindrome di Fine Millennio sia un disco che viene ancora ascoltato e preso come riferimento per la cultura del rap italiano?
Forse perché è un disco nato con naturalezza, con ingenuità e con un grosso sentimento dentro, la passione per il rap italiano in anni non sospetti, quindi se facevi rap italiano in quegli anni è perché proprio ci credevi, forse è questo il significato che regge tutt’ora. Quello è un disco dove avevamo creato un linguaggio, oggi i rapper provano a fare gli afroamericani ma non si rendono conto che sono ragazzi bianchi, cresciuti in Italia con Barbara D’Urso e il calcio, che sono cose che in America non esistono o perlomeno se ci sono non sono così importanti; quel disco incarna questo spirito, cioè l’Italia e la maggior parte dei rapper non parla di questo, dentro c’è tutto quello che spesso manca oggi.
"Fai quello che vuoi ma l'amaro che provi quando tratti di merda i tuoi/che sei te stesso, sei solo con te stesso ma non sei nessuno per il resto/ ma nulla è il ritorno, piuttosto è intorno/ nulla si fa in un giorno neanche un film porno/ deformo, trasformo e parlo nel sonno per ore/che al buio è tutto dello stesso colore"
Se c'è, una traccia di quel disco a cui sei particolarmente affezionato.
Non c’è una canzone in particolare a cui sono affezionato, sono legato a quel disco perché sono affezionato a quel momento, allo spirito che ruotava intorno al rap in quegli anni.
Si è mai veramente conclusa quella "sindrome" del '99?
Io in quegli anni ascoltavo dei dischi di rap americano che erano molto combattuti, spesso non c’era neanche una traccia radiofonica erano dischi che non sarebbero neanche mai arrivati al grande pubblico in radio, quindi quando ho fatto Sindrome di Fine Millennio volevo fare un disco che suonasse il più possibile come la musica che ascoltavo, quella musica è cambiata oggi e tu mi chiedi se si era mai conclusa quella sindrome: sì si è conclusa, perché poi siamo cresciuti.
Che bella la rabbia, la gioventù, la fame.
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L'articolo Ho chiesto a Fabri Fibra di raccontarmi Sindrome di Fine Millennio di Chiara Lauretani è apparso su Rockit.it il 2019-03-22 12:30:00
COMMENTI (2)
Si capisce che gli artisti nei primi dischi senza tante pressioni riescano a fare un ottimo lavoro originale e che rimarrà nel tempo.
Come FF riesca a sfornare ancora lavori ottimi è solo grazie alla sua passione per questo genere e per il suo lavoro.
Che lo clonano e copino è normale e anzi è da ammirare perché è come se lui stesso abbia emanato un energia per altri mille lavori.
Una saluto da Marotta.
Un Artista mai stato privo di contenuti.
Da ammirare.