Il 23 ottobre 1968 esce “Senza orario senza bandiera”. È l’esordio sulla lunga distanza dei New Trolls ed è anche il primo concept album della storia del rock italiano. Un lavoro nato dall’incontro tra un gruppo allora considerato d’avanguardia, i New Trolls appunto, un cantautore abituato ad andare in direzione ostinata e contraria come Fabrizio De André, il poeta visionario Riccardo Mannerini e Gian Piero Reverberi, un musicista e arrangiatore colto e preparato. Una congiunzione che porterà alla nascita di un disco di rara bellezza, che, a cinquant’anni di distanza, non ha perso un grammo del proprio fascino.
I New Trolls si formano a Genova nei primi mesi del 1967, la loro storia parte dal disfacimento di altre band presenti in città: il batterista Gianni Belleno arriva dai Jets, dal cui nucleo nasceranno i Ricchi e Poveri, Mauro Chiarugi suonava le tastiere negli Skints, Giorgio D’Adamo era il bassista nei Terremoti, mentre il polistrumentista Vittorio De Scalzi militava nei Trolls e il chitarrista Nico di Palo nei Bats. Sono molto giovani, il più anziano è Di Palo con i suoi 20 anni, De Scalzi ne ha appena 18. Eppure, a dispetto dell’età, quest’ultimo vanta un’esperienza discografica significativa, con tre 45 giri realizzati nel 1966, un paio con la ragione sociale Trolls e l’altro da solista, con lo pseudonimo Napoleone.
Vittorio è un giovanotto intraprendente, da ragazzino gira con una chitarra di plastica a pile della Meazzi, uno strumento piuttosto bizzarro che non passa inosservato. Bazzica l’ambiente musicale cittadino sperando, un giorno, di farne parte. Nell’estate del 1965, vagando tra lo stabilimento balneare Nuovo Lido di Albaro, comincia a prendere di mira Fabrizio De André, che all’epoca aveva acquisito una certa fama. De Scalzi ricorda quel periodo così: “Ero ‘lo ‘strano’, il pazzo che andava in giro a rompere i coglioni in cabina a Fabrizio e gli facevo "Senti un po’ questo", e giù a scherzare” (da “Vita di Fabrizio De André", Luigi Viva, Feltrinelli, 2000). È il primo contatto tra Faber e il futuro New Trolls. Ancora qualche anno e i due si troveranno di nuovo fianco a fianco.
Quando i componenti dei New Trolls decidono di dare vita a un nuovo gruppo, la musica beat è sul viale del tramonto. Nel Regno Unito e oltreoceano stanno accadendo cose inaudite: i Beatles hanno inciso “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, Jimi Hendrix è il nuovo dio della chitarra elettrica. È una rivoluzione, tutto sta per cambiare, la band genovese decide di elaborare un suono figlio di quei giorni inquieti. I ragazzi provano nei locali del ristorante del papà di De Scalzi, in poco tempo riescono a buttare giù alcuni pezzi e a convincere la Fonit Cetra a metterli sotto contratto. La Fonit Cetra è un’etichetta conservatrice, dotata di una scuderia non proprio al passo coi tempi: Claudio Villa, Gianni Pettenati, Sergio Endrigo sono i suoi principali cavalli di battaglia. I New Trolls, al confronto, sembrano extraterrestri. “Quando nel 1968 siamo entrati in sala d’incisione per registrare "Sensazioni", il nostro primo 45 giri" – ricorda Di Palo in “Il rumore dell’impatto” (Gianni Anastasi, Aereostella, 2007) – "il fonico della Fonit Cetra credeva che ci fossero delle interferenze, o chissà quali diavolerie nel pick-up della mia chitarra, e mi fece ripetere l’attacco iniziale parecchie volte (…). Il problema era che non conosceva i suoni distorti che avevo già sperimentato durante le prove. Dovetti quasi costringerlo a registrare così”. I New Trolls sono troppo avanti, la loro cifra stilistica è una miscela di rock e psichedelia, i legami con Hendrix, Vanilla Fudge, Jeff Beck sono evidenti. Nessuno mai, in un Paese legato alla cultura della canzonetta, si era mai spinto verso certe sonorità. Il pubblico, quello più giovane e aperto al nuovo, premia questa ventata di freschezza: “Visioni”, il secondo 45 giri sfornato dai New Trolls, presentato a Un disco per l’estate, vende oltre 200.000 copie e raggiunge l’undicesimo posto della hit-parade. Nel frattempo, l’attività live diventa frenetica. Nell’aprile del 1967, i nuovi folletti aprono i concerti dei Rolling Stones nella loro tournée italiana e a maggio partecipano al Festival dell’Avanguardia di Rieti vincendo il Premio della Critica. L’occasione di incidere un album si manifesterà da lì a poco, i New Trolls non se la faranno sfuggire.
Nel 1968, Fabrizio De André è un cantautore affermato, anche se continua a essere considerato di nicchia. Il successo raggiunto da “La canzone di Marinella” nella versione di Mina e le relative royalties incassate gli permettono di lasciare il lavoro di ufficio all’Istituto Ligure, una scuola privata fondata dal padre, e di dedicarsi a tempo pieno alla musica. In febbraio esce il suo “Tutti morimmo a stento”, al cui interno figura “Cantico dei drogati”, scritto in collaborazione con Riccardo Mannerini, poeta genovese dalla vita alquanto movimentata. Un viaggiatore incallito, nonché eccellente consumatore di birra, che per un po’ aveva svolto l’attività di motorista nelle navi da crociera. Ma Mannerini è molto di più. “Era un altro grande mio amico" – ricorda De André tra le pagine di “Fabrizio De André, l’ultimo trovatore” (Roberto Iovino, Fratelli Frilli, 2006) – "Era quasi cieco perché quando navigava su una nave dei Costa gli era esplosa in faccia una caldaia. (…) Ha avuto brutte storie con la giustizia perché era un autentico libertario e così, quando qualche ricercato bussava alla sua porta, lui lo nascondeva in casa sua”.
Fabrizio ha avuto la possibilità di ascoltare dal vivo i New Trolls e ne è rimasto favorevolmente impressionato. L’idea è quella di mettere insieme la loro musica e le poesie di Mannerini. Faber ne parla con Gian Piero Reverberi, il produttore di “Tutti morimmo a stento”. Ricorda Reverberi: “Stavo lavorando con Fabrizio a "Tutti morimmo a stento" e avevamo a disposizione gran parte del materiale di quel poeta navigatore che fu Riccardo Mannerini. Fabrizio, naturalmente, poté usarne una parte per il suo LP, però non tutta quella materia gli era consona. Inoltre in quel momento stavo anche io producendo i New Trolls, assai apprezzati da Fabrizio, così mi disse: "perché non usiamo alcune idee di Mannerini per fare qualcosa con il gruppo?’" Così stralciammo i testi più adatti a questa specie di viaggio immaginifico che prese il nome di "Senza orario senza bandiera"” (da “Codice Zena”, Riccardo Storti, Aereostella, 2005).
All’inizio, nella band regna un po’ di scetticismo, ben riassunto, anni dopo, da Nico Di Palo: “Il sodalizio con Faber significò sicuramente un rischio, ma, a posteriori, un notevole passo avanti. Un nuovo rischio perché una volta ancora offrivamo al mercato discografico una proposta assolutamente nuova: un concept album nel quale per la prima volta, insisto, i testi non fossero stati ideati per accompagnare una singola melodia ma che invece venissero uniti da un filo conduttore, da un’idea comune che, almeno all’apparenza, poteva sembrare anche strampalata. (…) Ho parlato di rischio per due motivi. Il primo era che non sapevamo bene che risposta avrebbe dato un pubblico abituato ai 45 giri (…), e in secondo luogo l’ambiente discografico era poco propenso agli esperimenti. A tutto ciò va aggiunto che la locomotiva dell’intera operazione era quel Fabrizio De Andrè che, almeno in quel periodo, era visto come denso fumo negli occhi non solo da tutti i benpensanti d’Italia, ma anche da buona parte del settore discografico. Infatti veniva considerato alla stregua dei poeti maledetti, cioè un autore ricco di talento ma anarcoide e quindi non del tutto affidabile commercialmente”. (da “Il rumore dell’impatto”). Dubbi che scuotono anche il sodale De Scalzi: “Avevo 17 anni ed ero pieno di Beatles e per me era molto più importante il messaggio musicale che non quello delle parole, anche se dopo ho dovuto ricredermi” (da “Volammo davvero", a cura di Elena Valdini, Bur, 2007). Ma basta poco per passare dallo scetticismo all’entusiasmo: è un’occasione unica, non è il caso di lasciarsela sfuggire.
I New Trolls arrivano in sala di registrazione con la struttura dei brani già pronta, a De André spetta il compito di adattare i testi di Mannerini alla musica, Reverberi è il collante incaricato di incastrare il tutto. Sin da subito si fa largo l’idea di creare un concept sul viaggio. Viaggio come una sorta di pellegrinaggio, senza una meta precisa, senza orario e senza bandiera, percorso da un’umanità sconfitta in cerca di redenzione. Scrive il giornalista Cesare Romana tra le note che compariranno all’interno della copertina del 33 giri: “Ogni incontro, ogni pagina di questa storia, è una tessera di un mosaico che coglie i diversi eppur concomitanti aspetti della natura umana, della sua quotidiana epopea”.
Il vinile si apre e si chiude con due canzoni quasi identiche: “Ho veduto” e “Andrò ancora”. Mannerini si emoziona a osservare il mondo, ne ascolta il linguaggio, si stupisce di fronte alla faccia sporca di un amico. Per poi promettere, nella parte conclusiva del racconto: "Andrò ancora per le strade del mondo con occhi sinceri. Cercherò ovunque il dolore, la gioia dell’uomo. (…) Andrò ancora e quando tornerò sarò più vecchio e migliore. Non sarò mai né triste né stanco. (…) Andrò ancora per le strade del mondo, potete contarci”. Tra i due brani trova spazio un universo di personaggi accomunati da una rigorosa ricerca della felicità, di pace interiore, di spiritualità. Come “Vorrei comprare una strada”, storia di un sognatore che vorrebbe acquistare un pezzo di New York per poi lasciarlo a disposizione dei bambini, o “Signore, io sono Irish” metafora di chi vorrebbe avvicinarsi a un Dio troppo distante e che per questo si mette alla ricerca di un altrettanto metaforica bicicletta, o “Susy Forrester” ritratto di chi non ha mai trovato l’amore e che vede la propria bellezza sfiorire. E se “Al bar dell’angolo” parla di un gruppo di amici intenti a giocare a dadi, “Duemila” mette in luce le contraddizioni di una società in grado di conquistare lo spazio senza aver risolto il problema della povertà. Arriva “Ti ricordi Joe?” ed ecco la guerra, i marines, i lutti, i dolori, che il testo di “Padre O’ Brien” tenta di esorcizzare attraverso parole di solidarietà e speranza, mentre “Tom Flaherty” si rivela un uomo timido, incapace di dichiarare il proprio amore alla donna dei sogni. È una galleria di sconfitti, di uomini comuni, di una “quotidiana epopea” che non entrerà mai nelle pagine di storia. Temi cari alla poetica di De André, che trova un Mannerini sulle sue stesse corde. Saranno i New Trolls a valorizzare ulteriormente il loro legame.
Come detto poco sopra, Nico Di Palo e compagni arrivano alle registrazioni del Long Playing con dei pezzi pronti per l’uso e, soprattutto, con le idee chiare. “Noi New Trolls" – ricorda De Scalzi in “Opera rock. La storia del concept album” (Daniele Follero e Donato Zoppo, Hoepli, 2018) – "eravamo spontanei, immediati, per niente costruiti, ma la nostra idea di base per quel disco era Sgt Pepper. Ci sono analogie importanti tra il capolavoro dei Beatles e il nostro concept: intanto l’idea forte era quella di legare le canzoni, di amalgamarle con dei raccordi che creavano una continuità, come un racconto”. E così sarà. Le musiche sono firmate dalla coppia De Scalzi-Di Palo, con un paio di eccezioni: “Signore, io sono Irish” è una creazione del solo Reverberi, mentre in “Bar dell’angolo” (con testo curato dalla band) c’è il contributo di D’Adamo. Vista la qualità del materiale, il lavoro di Reverberi appare sin da subito in discesa. Scrive Luigi Viva nel suo “Vita di Fabrizio De André”: “Reverberi aveva la grande capacità di rispettare le idee musicali dei New Trolls, che fluivano semplici – naïf, precisa De Scalzi –, senza stravolgerle, ma affinandole e completandole poi con delle parti orchestrali”. Oltre ad addolcire, in qualche caso, il suono, e ad adottare soluzioni sorprendenti (“Al bar dell’angolo” si chiude con un fischio che fa il verso al ritornello di “Sensazioni”), il produttore genovese inserisce tra una canzone e l’altra dei brevi interludi sinfonici che trasformano l’album in un’unica suite, tanto da rafforzare l’idea del concept e del viaggio. Il disco è una combinazione particolarmente riuscita tra musica d’autore e rock. I New Trolls esprimono la loro aggressività in “Duemila” con la potenza della chitarra di Di Palo, per il resto il suono è caldo e suggestivo, melodico, onirico, a tratti barocco, prog, tra tocchi a là Beatles e Moody Blues. Le voci di Vittorio De Scalzi, potente e black, e di Nico di Palo, con i suoi inavvicinabili vertici acuti, si succedono tra impasti di cori ai limiti della perfezione (diventeranno un marchio di fabbrica), alle quali danno man forte Belleno e D’Adamo.
“Senza orario senza bandiera” raggiunge un discreto successo, nelle classifiche di vendita toccherà il diciannovesimo posto, niente male per un gruppo alle prime armi. I New Trolls capiranno solo più tardi che quel disco di 30 minuti scarsi è un capolavoro: “Per anni non mi ha mai entusiasmato…" – ricorda De Scalzi in “Vita di Fabrizio De André” – "Sì, bello, d’accordo, perché a me piacevano molto le musiche che avevamo fatto. (…) Poi, all’improvviso, qualche anno dopo, ho detto "Cazzo! Abbiamo fatto una gran cosa!". Però l’ho capito molto in ritardo, perché io mi muovevo, e un po’ forse tutti noi, sulle ali di un entusiasmo che non ci dava il tempo di fermarci a pensare, a valutare, e poi allora avevo appena diciott’anni”.
Le strade di Fabrizio De André e dei New Trolls si ricongiungeranno di rado negli anni a venire. Nel 1971, De Scalzi suona le chitarre in “Non al denaro non all’amore né al cielo”, quattro anni più tardi, Belleno e D’Adamo, assieme a Ricky Belloni e Giorgio Usai (che a breve si uniranno al gruppo) partecipano alla prima tournée di Faber. Nel 1985, i New Trolls portano al Festival di Sanremo “Faccia di cane”, che si aggiudica il Premio della critica. Solo qualche anno dopo si scoprirà che il testo è opera di Fabrizio De André, scritto in collaborazione con Roberto Ferri, non accreditato al cantautore per evitare beghe discografiche.
Dopo “Senza orario senza bandiera”, i New Trolls si convertiranno del tutto al progressive per poi puntare, dalla seconda metà degli anni ’70 – sullo sfondo di una storia litigiosa e caratterizzata da infinite diaspore – su di un sia pur dignitoso pop da classifica. Dal quale si sfileranno i barocchi “The seventh season”, “Concerto grosso numero 3” oltre a “Fs”, del 1981, un altro concept album, questa volta sul treno. Un tentativo peraltro riuscito, senza però toccare le irraggiungibili vette di “Senza orario senza bandiera”, che è e rimarrà uno dei dischi imprescindibili del rock italiano.
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L'articolo 50 anni da “Senza orario senza bandiera” dei New Trolls, il primo concept del rock italiano di Giuseppe Catani è apparso su Rockit.it il 2018-10-23 10:28:00
COMMENTI (5)
Anche quelle ovviamente
Col mio gruppo cercavamo di farlo tutto quell’album
Cosa molto ostica soprattutto per le voci 😀
Dopo un anno di prove eravamo arrivati solo a Irish
Poi purtroppo decidemmo di studiare sennò saremmo stati bocciati e … niente più cantina, strumenti ecc. requisiti dai tirannici genitori (in quegli anni le cose stavano così)
Oggi, a 70 anni riprovo con la mia strumentazione elettronica per puro diletto da pensionato statale
@GustavoCapito immagino ti riferisca a "Ho veduto" o "Andrò ancora"...
Bellissimo articolo: molto ben documentato; avevo 15 anni e fu la prima canzone che imparai a suonare con la chitarra, "tirando giù" gli accordi a orecchio direttamente dal disco che, per il tanto ascolto, si era pian piano consumato tanto che ne dovetti comprare una seconada copia!
Grazie Roberto!
Complimenti Giuseppe Catani, davvero un bell'articolo interessante, ho vissuto quei tempi anche se ero ragazzo li ricordo con molta nostalgia.