Era il 2015 quando il data analyst Kenny Ning prese in esame l’intero archivio di Spotify e scoprì che l’accordo più usato in assoluto nelle musica moderna è il sol maggiore. A suo avviso si tratta di una combinazione di note che, trasmettendo leggerezza e allegria, può piacere alla maggioranza degli ascoltatori di tutto il mondo.
Alla maggioranza, ma non a tutti: nonostante non si tratti di semplice gusto musicale - giudicabile o meno, ma proprio di una predisposizione che può variare da persona a persona in base ai fattori più diversi. Per molti anni gli scienziati hanno ipotizzato che la tendenza ad apprezzare alcune armonie fosse dovuta alle reti neurali dei soggetti, ma uno studio più recente sostiene che il gusto musicale non dipenda tanto da fattori biologici, quanto culturali.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature e riporta i risultati ottenuti dal ricercatore del MIT di Boston Josh McDermott e di Ricardo Godoy della Brandeis University. I due hanno condotto due sessioni di analisi, nel 2010 e nel 2015, dedicate a come alcune popolazioni indigene delle foreste pluviali della Bolivia interpretassero la musica. Scelto un campione di 100 persone, hanno sottoposto i soggetti a diversi esercizi che li stimolassero all’ascolto di determinati suoni e accordi e hanno proseguito chiedendo di classificare diverse proposte sonore, a partire da rumori specifici fino ad accordi consonanti o dissonanti. In seguito hanno ripetuto gli stessi esperimenti con un campione di occidentali.
(Ricardo Godoy durante uno dei test, via)
McDermott e Godoy hanno avuto conferme su aspetti che già conoscevano, come ad esempio il fatto che i soggetti che sapevano suonare uno strumento avessero una capacita di comprensione superiore rispetto agli altri, oppure che certi rumori fossero del tutto "universali": una risata veniva sempre considerata “piacevole” e un urlo era “spiacevole” in entrambi i gruppi. La differenza, invece, stava nella percezione delle note: pur con variazioni in base alle loro aree di provenienza, è emerso che gli indigeni trovavano piacevoli sia gli accordi consonanti che quelli dissonanti.
Secondo McDermott, quindi, il gusto musicale non può essere innato e dipendente dalla conformazione cerebrale di una persona, ma è legato al clima culturale e al tipo di ascolti a cui questa è stata sottoposta in tutta la sua vita.
“La preferenza per la consonanza dipende dall’esposizione a determinate musiche, probabilmente spesso costruite attorno ad accordi e note specifiche” - ha commentato - “Se dipendesse dai collegamenti neurali del nostro cervello non si potrebbe verificare una differenza culturale così marcata, ognuno avrebbe una naturale predisposizione verso un gusto musicale preciso”.
(via)
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L'articolo I gusti musicali dipendono dal nostro cervello o dalla cultura in cui viviamo? La risposta in uno studio di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2017-05-09 15:16:00
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