E' apparso su Musicraiser un progetto interessante, si chiama "Unità di Produzione Musicale", l'ha inventato Enrico Gabrielli (Calibro 35, Mariposa e molti altri). In pratica ha pensato una fabbrica dove i musicisti devono mettersi la tuta da lavoro e produrre musica per turni da otto ore. Ci sono le pause pranzo, non ci sono operai più specializzati di altri, tutti scrivono e tutti suonano in catena di montaggio. L'abbiamo intervistato.
Cosa vuoi dimostrare con un progetto simile?
La mia idea mira a fare un'opera. Sono rimasto affascinato da come si possono fare delle opere cinematografiche su alcuni esperimenti sociali. Avendo fatto musica con molta gente in Italia, ad un certo punto ho cominciato a guardarmi intorno con un'ottica sociologica. Da qui è venuto fuori il progetto. E' come un esperimento microsociale, alla Milgram o alla Stanford, per dire.
Non è facile capire fino in fondo l'idea. Quando le parole diventano poetiche - e sopratutto se tirano in ballo concetti come "Industria culturale" - è facile fare confusione.
Fai bene a chiedere, io non ho ancora avuto modo di parlare con qualcuno in maniera diretta, botta e risposta, non mi sono ancora confrontato con una persona che mi dica "perché lo fai?". Probabilmente non lo so il perchè (Ride, NdA). Quello che mi interessava fare era un lavoro dove il concetto di industria culturale venisse messa letteralmente di fronte agli occhi degli spettatori.
E tu cosa intendi per industria culturale?
Non se si può più chiamar così, ormai. E' una roba che negli ultimi anni ha risentito di scosse sismiche spaventose dal punto di vista economico. Con quella parola intendo: fare musica per un pubblico in una maniera reiterata e, contemporaneamente, fatta per il sostentamento di una macchina più grande, composta anche da altre figure. Un entourage di persone che comprende manager, musicisti, uffici stampa, autori, ecc. ecc.
E' importante sottolineare che la preparazione musicale dei singoli musicisti non è una discriminante?
Si. C'è un motivo di fondo… il meccanismo è questo: 30 operai che scrivono e 30 operai che suonano. Tutti si alterneranno in continuazione, non saranno mai assemblati nello stesso modo, ci sarà sempre una persona che sarà predisposta per ridistribuire le persone ai tavoli in modo che gli interplay tra chi suona e chi scrive siano sempre diversi. 30 persone che scrivono 30 spartiti per 30 leggii, in sostanza ognuno avrà uno spartito di cui non saprà nulla. Quindi, quello che legge è totalmente e completamente inutile.
Il salto doppio carpiato è proprio questo: l'industria musicale produce delle cose che sono casuali, se non addirittura inutili. Per questo la preparazione musicale non è importante, per questo molte di queste persone scriveranno spartiti senza saper scrivere musica, e mi immagino che saranno più delle indicazioni, tipo: "a questo punto della canzone fai così".
Quello che voglio dire è che, ad esempio, nell'industria culturale mainstream si sono prodotte cose in maniera seriale senza una vera idea dietro, a volte senza nemmeno averne le competenze.
E, giusto per chiarire, questo secondo te accadeva perché autore, produttore, musicista, lavoravano quasi senza parlarsi. Un manager prendeva un cantante, gli dava una canzone, il produttore la impacchettava…
….si, esatto, assolutamente così. Ma accade ancora adesso, ormai non ci sono soldi ma ci sono ancora capi di determinate multinazionali che magari arrivano dalla Barillla e, fino a prova contraria, non penso che ne sappiano molto di musica. E a volte capita che alcuni dischi vengano dati in gestione a dei produttori senza reali competenze. Non dico che esista una ricetta per fare la canzone di successo, nessuno ce l'ha ma in tanti hanno fatto credere di averla e si sono fatti pagare profumatamente. Forse sto uscendo un po' troppo fuori dal discorso, scusa…
Ritornando al punto: il punto è capire gli effetti di una musica prodotta in serie.
Ecco, esatto.
Mi spieghi cosa vuol dire l'"Ego livellato sulla norma comune".
Vuol dire che magari in fabbrica ci sarà un personaggio importante per la musica contemporanea, o Cristiano Godano dei Marlene Kuntz o uno ragazzo totalmente sconosciuto ai più e che prima faceva lo spazzino. Tutti sono schiacciati da un sistema normativo uguale. Tutti in tuta, tutti devono fare la medesima cosa per un periodo di tempo uguale, pagato per otto ore di lavoro. Persone note e non note. Ed è una cosa fondamentale, è una dialettica importantissima. Vuol dire che quando si è costretti a fare musica per guadagnare la pagnotta non importa più chi sei.
Quindi l'industria culturale è il male come diceva Adorno?
Già è vero, lo diceva anche Adorno ai tempi (Ride, NdA). No, anzi, e capisci quanto la nostra cosa sia donchisciottesca. L'industria culturale è un vecchietto in pensione, proprio perché il grande meccanismo che dava da mangiare a tutto un entourage di persone ormai è diventato minuscolo. Non so se sia il male o se lo sia stato, è stato un problema grosso negli anni 90 dove c'era un apice di mercato. C'erano i soldi e, secondo me, ci sono stati grandissimi, giganteschi, macroscopici, errori strategici da parte di chi avrebbe dovuto vedere un po' più nel futuro. Invece tutto quanto è tramortito.
E oggi che importanza ha fare un progetto come il vostro?
E' importante per un percorso di memoria. Sono cose già dette, è un'operazione post-moderna se vuoi, ma farla adesso è importante perché si torni a pensare alle cose che stanno dietro alla musica. Al momento siamo in una fase di crowdfunding, stiamo cercando di raccogliere dei fondi per farlo, non abbiamo ancora concluso il progetto. Una volta realizzato, vedrai che le cose saranno molto più chiare.
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L'articolo Enrico Gabrielli ci racconta la sua Unità di produzione musicale di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2013-03-05 12:25:09
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