Circa un annetto fa, un mio amico ha preso un diploma in sceneggiatura con una tesi sul teen drama. La tesi studiava il rapporto tra la narrazione dell'adolescenza che le serie tv per ragazzi hanno messo in scena, da "Dawson's Creek" in poi, e come nei fatti sono cambiate sociologicamente le abitudini degli adolescenti negli ultimi trent'anni. Spero che Bonti mi perdoni questa drastica riduzione, ma il concetto, per farla corta, è il seguente: se una volta in copertina c'era tutta la compagnia di Dawson, oggi la comunicazione attorno a "13" è basata su immagini di ragazzini soli, che guardano inquietati la fotocamera, su uno sfondo nero.
L'accostamento di due diverse immagini, nate all'inizio e alla fine del medesimo percorso culturale, che ha come destinatario un pubblico nella stessa fascia di età, ma di due diverse generazioni, rispecchia, nella tesi del mio amico, l'effettiva tendenza dei giovanissimi (studiata da fior fior di psicologi sociologi filosofi eccetera) a concepirsi sempre più soli. Niente di nuovo, è una cosa detta e ridetta: quello che mi interessa è invece ciò che viene subito dopo questa constatazione.
La tesi, infatti, si concludeva sulla previsione di una progressiva inversione di tendenza. Il mio amico trovava nelle ultimissime serie per ragazzi, soprattutto tra quelle non ancora troppo famose, segnali di un ritorno alla comunità, di un desiderio della cultura di massa di tornare a raccontare vicende che abbiano come protagonisti dei gruppi, forse nato dalla volontà di arginare quella solitudine di cui (forse) è un po' responsabile la stessa cultura di massa.
Ovviamente le comunità raccontate nel 2019 sono diverse da quelle raccontate nel 1989; un po' più imbarazzate, più attente a quello spazio personalissimo che l'individualismo ci ha ritagliato attorno negli ultimi millenni di civiltà occidentale (e in questi decenni con un tasso di accelerazione spaventoso). Ovviamente, in un tempo in cui la pubblicità è targettizzata al millimetro sulle nostre voglie estemporanee e nemmeno espresse, cioè un tempo in cui la legge del mercato non è interessata a prenderci in gruppo, ma a prenderci singolarmente, ogni accenno di "comunità" è totalmente depotenziato nelle sue caratteristiche davvero peculiari. Tuttavia il discorso è già fin troppo largo; qui si parla di musica italiana, e quello che voglio dire è come questa strana voglia di tornare "insieme" sia espressa da alcuni aspetti della nuova musica urban che sta invadendo le nostre città e le cuffiette dei ragazzini.
Su questa rivista qualche anno fa ci sarebbero stati i Finley?
Concetti nati nella controcultura, come la crew e gli pseudonimi/nickname, stanno diventando il nuovo linguaggio per riferirsi a quell'aspirazione comunitaria da cui non sono ancora riusciti ad astrarci del tutto. I cosiddetti trapper sono fruiti a costellazioni: se ti piace quello ti piacerà quell'altro, lui è amico di quell'altro ancora, il produttore di tutti questi ha prodotto la base di quell'altro... se ne parla come fossero personaggi dei fumetti, come fossero nell'universo Marvel, in quello DC, o in quello di Akira Toriyama, appartenenti a una o all'altra galassia di "superamici". Se Carlo e Franco hanno portato quel "126" della Love Gang in radio, Ketama126 ci sta incendiando i club di tutta italia. Appartenere alla crew non è più solo un codice linguistico alternativo per raccontare legami diversi da quelli famigliari e professionali della "gente normale", ma è diventato il cuore stesso di quello che si racconta nei pezzi.
È la resistenza di chi non conosce e non se ne fotte dei nobili motivi per cui sta insieme ai propri amici (droga, soldi, sesso, sono le parole magiche per fare incazzare i vecchi che ci hanno lasciato un mondo dominato esattamente da queste tre cose), ma avverte che c'è qualcosa di vitale importanza proprio nel fatto di non essere solo. Pensate alla Dark Polo, a quanto metà dei pezzi "conscious" non siano altro che ostentazione del gruppo, della fedeltà al gruppo, del non fidarsi di chi è ostile al gruppo. La dipartita di Side testimonia che non è vero vero che "la gang è per sempre", ma questo non importa, non importano i valori su cui si costruisce la compagnia: in tempi di così radicale reset sociale quello che conta è solo la compagnia come sintomo, la compagnia nella sua semplice superficie, intesa come "non-essere soli".
Fateci caso a come l'industria musicale, prima del tracollo di solipsismo che è stata l'istituzionalizzazione dei social network, ci abbia letteralmente ammorbato di boy band. Ragazzini e ragazzine sorridenti, che cantano, ballano, e parlano d'amore. Quando per farci comprare qualcosa serviva passare dalla tv, non potevi parlare a una specifica tipologia di giovani appassionati del prodotto che vendevi, ti toccava rivolgerti a tutti i ragazzini che guardavano la tv tra le 14 e le 16. Dovevi ragionare sul gruppo. Ora che quel gruppo è collassato, le boy band hanno sempre meno ragione d'esistere. Ma uscite dalla finestra, rientrano dalla porta.
Penso ad esempio alla risemantizzazione dei Lùnapop, che oggi influenzano l'indie dei figli di chi nel '99 ascoltava solo gli Afterhours e i Verdena e ripeteva "che schifo i Lùnapop". Penso all'ormai storica compilation di cover agli 883 qui su Rockit. Un passaggio armonico, un groove di batteria, un uso della tastiera che ci ricorda quel modo di fare musica stile "Top of the pops" o "Festivalbar", non solo rievoca la nostra infanzia, attivando un automatismo di piacioneria, ma ripresenta al nostro inconscio la possibilità stessa di fare gruppo gratuitamente, di non avere come orizzonte ricorrente della nostra esperienza la solitudine della camera, o del touch-screen. Di fare merenda con qualcuno e andare al parchetto, di scambiare i Pokémon che nell'altro palazzo abita uno che ci ha il cavo.
L'emergere dei Tauro Boys da quella stessa scena romana che ha visto avvicendarsi Love Gang (Franco, Carlo, Ketama, Pretty Solero) e Dark Polo Gang, testimonia un altro passetto in questo senso. Nata nelle stesse aule di scuola e dallo stesso linguaggio "rap" dei predecossori, la Tauro non è solo una gang rap romana. I Tauro Boys cantano sempre tutti insieme, non succede quasi mai che uno dei tre salti una strofa. Pochi di noi li conoscono come Yang Pava, Maximilian o Prince, molti ce li hanno in mente solo come "i Tauro Boys". La loro estetica è una via di mezzo tra una sorta di luccicante mondo post-internet e come ci saremmo vestiti se "Cioé" fosse stato un influente brand di moda. La Tauro è a tutti gli effetti una boyband underground, che sta cercando di ri-essere il modello visto su Rai2 anni e anni fa, ma con la consapevolezza che di mezzo ci è finito un mondo e faticosamente ne sta venendo fuori un altro.
Del resto, il loro pezzo più ascoltato su Spotify recita così:
«Con i miei amici sto pensando
che in fondo coi miei amici sto bene».
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I Tauro Boys si esibiranno il 15 marzo a MI AMI XXX, presso l'ex cinema porno District 272, con Chadia Rodriguez, Francesco De Leo e Uccelli. Le prevendite sono aperte qui.
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L'articolo Uno, nessuno e i Tauro Boys: come sta cambiando il rapporto tra musica e gruppo sociale di Pietro Raimondi è apparso su Rockit.it il 2019-02-27 15:00:00
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