Come saprete, lo scorso mese sono stati annunciati i vincitori della trentottesima edizione delle Targhe Tenco. L'album dell'anno è andato a Caparezza, mentre il titolo di migliore canzone è stato assegnato ai Virginiana Miller, per il brano "Lettera di San Paolo agli operai"
Come al solito, sulle pagine musicali de Il Fatto Quotidiano non sono mancate le polemiche, in particolare per il gruppo livornese, che secondo il giornalista Paolo Talanca è stato autore di un "testo abbastanza scontato" con "metafore trite, abusate e sostanzialmente stagnanti."
C'è qualcuno che ha deciso di rispondere a Talanca, e quel qualcuno è Simone Marchesi, dantista e boccaccista, e professore di letteratura italiana all'Università di Princeton. Uno che di testi ne sa, insomma.
Ecco la sua risposta, che pubblichiamo integralmente:
(dall'articolo sul Fatto Quotidiano)
"Ora: i Virginiana Miller nel loro genere fanno brani sicuramente validi, con una scrittura puntuale, ricercata ed elegante. Rimangono però forti dubbi sul fatto che Lettera di San Paolo agli operai sia la canzone più bella dell’anno: testo abbastanza scontato, dettato didascalico e metafore trite, abusate e sostanzialmente stagnanti. Per carità, è un brano che ci può stare, apprezzando quel genere, in un disco con una poetica precisa, ma il pezzo non rimane, non scuote (né nelle parole, né nella musica), non è qualcosa di memorabile. E una canzone che riceve una targa del genere, dalla principale istituzione per la musica di qualità in Italia, dovrebbe essere qualcosa di memorabile. Ma tant’è."
Sì, certo: ci può stare. Ci può stare che una canzone non rimanga e non scuota nelle parole o nella musica. E questo può essere il destino della "Lettera di San Paolo agli operai" dei Virginiana Miller.
Quello che ci sta un po’ meno, però, è che il testo della canzone che è stata premiata con la Targa Tenco come migliore canzone dell’anno sia liquidato nei termini di cui sopra. Se ribattere sul punto generale significherebbe poco più che bruciare qualche parola all’incrocio dei gusti, due parole sul testo può valere la pena di dirle. A giocare a questo altro gioco, cioè, ci si può stare. E cominciamo proprio da dettato e metafore. Non è scontato che didascalico, ad esempio, sia meno che un complimento per il testo della canzone. Se didascalico vuol dire in qualche contesto ‘pedante’, questo resta un significato secondo, uno a cui la deriva semantica dell’italiano lo ha avvicinato, ma che non cancella l’appropriatezza etimologica e testamentaria alla situazione del testo. Nel greco della lettera di Timoteo, Paolo è didaskalos ethnon –propriamente, chi insegna ai Gentili. E questo non è lettera morta nel testo della canzone. E poi ci sono le metafore, trite, abusate e stagnanti. Personalmente, e sia detto per inciso, avrei qualche perplessità a chiamare metafore tutte le immagini del testo, ma il mio mestiere è diverso da quello di chi ha scritto quanto sopra, e capisco che il suo non richiede la stessa precisione di linguaggio del mio. Ma tant’è: c’è qualcos’altro che rimane e che scuote nell’uso –mi si consenta, trito, abusato e stagnante– di metafore per parlare di immagini che forse proprio trite abusate e sostanzialmente stagnanti non sono. Perché, ad esempio, il quartiere non è nuovissimo perché è stato costruito da poco, ma perché guarda all’escatologia rivoluzionaria e messianica insieme (che è il punto della canzone) dei novissimi, delle cose degli ultimi giorni. Allo stesso modo, la cella è nell’alveare perché è allo stesso tempo quella di Gramsci che scrive dal carcere sull’organicità degli intellettuali e quella del monaco, dell’intellettuale inorganico per eccellenza, entrambi filosofi che pensano alla società come un corpo collettivo. Il cuore circonciso, poi, è tanto poco corrente quanto è strettamente paolino –dato che contiene un invito a percepire lo spirito (il vento) del testo sotto la lettera, che chi ha scritto non si sente tenuto disposto ad ascoltare (ma tant’è). E così lo è forse anche quel cemento disarmato, che non è solo un gioco di parole, ma l’addensarsi in un sintagma dello spiritus gladius, che è il segno di San Paolo, la traccia visibile della speculazione edilizia e il luogo in cui si articola l’interrogativo più o meno pacifista di ogni persona di buona volontà e di fede sociale. Esiste una linea sottile, insomma, tra il potere che possono avere le parole di invitare chi le ascolta, attraverso l’attivazione del loro passato culturale, ad esplorare il proprio contesto a testarne i limiti e la rassegnazione ad essere appiattite dall’uso. Esiste una linea, forse sottile ma essenziale, tra presentarsi come i frammenti sminuzzati di una visione del mondo unitaria e pervasiva ed essere trite, tra essere i depositari essenziali di una cultura e il veicolo dei conflitti che l’hanno resa viva ed apparire abusate, tra rappresentare la lunga durata lessicale ed intellettuale di questioni cruciali ed essere solo il segno di una stagnazione ideologica.
E questa linea, che la si consideri più o meno assurda o scandalosa, che la si percepisca o meno, io credo che ci sia.
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L'articolo La risposta di un professore dell'Università di Princeton al Fatto Quotidiano, a proposito delle Targhe Tenco di Redazione è apparso su Rockit.it il 2014-12-17 15:00:00
COMMENTI (13)
ma chi sono sti miller???????
la dimostrazione dello scritto è che oggi nessuno sa nemmeno cosa sia quella canzone.
Dotte argomentazioni e contro argomentazioni, ma resta il fatto che la canzone (insieme di testo e musica e non solo testo da sezionare e commentare) ha vinto un premio; più o meno meritato che sia ben venga. Quando mai i premi mettono d'accordo tutti. I Virginiana Miller se lo sono meritato con anni di impegno e coerenza per questa e per molte altre belle canzoni della loro lunga carriera musicale.
Diciamo anche, solo per completezza di informazioni, che Simone Marchesi, oltre a essere professore di letteratura italiana all'Università di Princeton, è anche autore di un libro sui Virginiana Miller e ha collaborato con Simone Lenzi (cantante dei Virginiana Miller) alla traduzione del primo libro degli Epigrammi di Marziale.
Non ho capito perché uno studioso di Dante e di Boccaccio debba saperne di prosa più che di poesia.
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aiiuuutttooooooooo!!!!!!!!!!!!!
Una bella e alta contro-argomentazione. Apprezzo davvero. E, in fondo, mi trovo d'accordo sull'ultimo punto, sul ruolo negativo dell'ungarettismo. Gli altri --sulla traiettoria di studi di una persona e su quanto puo' essere di volta in volta (di contesto in contesto) problematico un oggetto linguistico-- sono ossa in mano alle correnti sottomarine.
Chiedo scusa, nel commento (@Phlebas) al punto 2. intendevo: "DIRE che questo fatto "non sia lettera morta" nella canzone non è una dimostrazione".
Mi permetto alcune obiezioni:
1. Trovo francamente stucchevole l'argomento ad auctoritatem in apertura, tanto che pare che per rispondere si debba prima farsi il segno della croce di fronte al luminare, ma visto che è chiamato in causa nell'argomentazione provo a riarticolarlo. L'autore è un dantista e boccaccista, non un contemporaneista. Per di più, se si occupa di Dante e Boccaccio, è probabile - e l'apologia che mette in campo rende più forte l'indizio - che sia molto più uno studioso di prosa, e non di testi poetici (meno che mai di testi musicabili/musicati).
2. Didascalico ha, nel lessico critico (cioè nell'uso, più che nell'etimo) un significato deteriore per una ragione precisa: si riferisce a testi che non hanno autonomia narrativa o espressiva e, piuttosto, ricalcano pedissequamente i fatti considerati "fondamentali" (in una loro versione stereotipica e consolidata da una "tradizione" per quanto breve) senza alcuna selezione che non sia la tradizione. San Paolo sarà anche stato "didaskalos ethnos", ma qui "didascalico" ha un altro significato. O mi si mostra (o di-mostra) che il lemma è usato impropriamente, oppure la nota sull'etimologia ha valore esclusivamente esornativo: il fatto che questo fatto "non sia lettera morta" nella canzone non è una dimostrazione.
3. Le note dimostrative che l'autore fa vanno tutte in un'unica direzione: la sovrapposizione tra escatologia e rivoluzione, trattata già in maniera talmente esplicita nel testo che non vedo come possa sfuggire la connessione. Da questo punto di vista non trovo questa lettura particolarmente illuminante. Trovo, però, che ci siano punti di sopravvalutazione e sovrainterpretazione del testo: è vero che la cella è anche quella monacense e quella gramsciana, ma prima di tutto - e questo sfugge all'autore della difesa dei Virginiana Miller - è quella dell'alveare, metafora (sì, metafora: perché lo spostamento non è sintagmatico-spaziale, ma paradigmatico-semantico) trita e ritrita dei quartieri dormitorio, che non aggiunge alcuna drammatizzazione al testo, tanto è nell'uso comune. Così come è trito e ritrito il parallelismo tra Berlinguer e Cristo Redentore, abusata e stra-abusata l'antifrasi del cemento disarmato, l'elencazione "pop" che mette assieme il partito, il gruppo musicale, il santo patrono e - sorpresa sorpresa, manca il calciatore; cfr. col celebre monologo in "Radiofreccia". Da che punto di vista il testo riarticola l'uso comune per ottenerne un oggetto linguistico problematico?
4. Dal punto di vista strettamente metrico e formale, in ogni caso, questo pezzo fa, dal mio punto di vista, il classico errore dei testi musicati italiani degli ultimi venti o trent'anni: nella convinzione che l'ungarettismo rimedi a qualunque carenza ritmica, il testo è emesso stitico e spezzato su una musica (mi riferisco agli strumenti come alla melodia vocale) che invece lo vorrebbe e lo pensa come continuo e articolato - non è insomma un "In an expression of the inexpressible" dei Blonde Redhead (che pure trova una sua continuità ritmica, coerentemente con la ripetizione industriale del nucleo ritmico) né un pezzo degli Area, eppure il testo è trascinato e interrotto. Ma manca la motivazione musicale per questi trascinamenti e interruzioni. Niente, insomma, che non ci abbiano già fatto patire con anni di pessima musica gli Afterhours, i Verdena e i Marlene Kuntz, per non parlare dei Baustelle e del neo-cantautorato hipster.