Descrizione

Da venerdì 26 aprile è disponibile negli store e su tutte le piattaforme digitali La Lingua del Santo, il primo album solista di Petrigno, pubblicato da Vina Records e distribuito da Believe, anticipato dal singolo “Nella folla”.

Si parla spesso d’amore, Petrigno racconta l’apocalisse.
Cantautore, polistrumentista e illustratore, Petrigno sin da piccolo naviga tra la musica e il disegno facendo coesistere le due cose e lasciando che l’una ispiri l’altra.
Il suo battesimo musicale comincia con il punk ma presto B.B. King e il blues diventeranno la sua principale ossessione. Iniziano le prime collaborazioni, tra le quali spicca quella con il cantautore Fabrizio Cammarata, e presto arrivano anche i primi esperimenti discografici e i tour nazionali e internazionali.
La lingua del Santo, primo album solista di Petrigno, nasce a seguito di un lacerante lutto che spinge il cantautore ad abbandonare Palermo, sua città natale, e a trasferirsi in una casa immersa nel bosco laziale.
L’incontro con Valerio Mina (Clap Your Hands Say Yeah, Nic Cester, Tempers, Tale of Us, Mattia Bocelli, Baustelle, Diodato, Andrea Manzoni, The Matrix Resurrections, Babylon Berlin Season IV ecc.), suo attuale produttore, avviene quasi per caso. Da subito, tra i due, nasce l’idea di intraprendere insieme un percorso artistico che porta alla realizzazione de La lingua del Santo, un album denso di significato, melismatico, ipnotico e mai scontato, trasversale ma pur sempre vicino alla tradizione italiana della canzone. Un disco dove regna la canzone nella sua più alta espressione, la poesia ma anche il delta blues e l’elettronica, il noise e la furia ma anche la dolcezza, l’incondizionato amore e il dolore per la perdita di un caro amico, il gospel, il voodoo, gli incubi, le tragedie, la bellezza dell’oscurità, l’apocalisse dei tempi odierni, la morte, l’autodistruzione, il cielo, il mare e l’inferno.

La lingua del Santo è un disco che principalmente serviva a me. Che mi mancava. È come se senza dolore fossi nulla.
A volte mi sento come se ci siano dei posti dentro la mia testa dove non posso andare neanche io. Malessere ed irrequietezza. Sentirsi fuori posto, inesatti. Scomodi.
Il disco è uno sfogo del mio malessere, la mia musica lo è solitamente.
Sono scappato da Palermo, la città che più amo al mondo, la mia città alla quale sono legato in maniera viscerale, mi sono rifugiato in un bosco del Lazio.
Una persona per me molto importante è morta e qualcosa dentro di me si è rotta.
Ed io già ero rotto dentro.
Da lì depressione, ed un problema di eccessi. Ho un bisogno di andare in profondità dentro me stesso. Un bisogno di liberarmi da qualcosa, anche se in parte, perché altrimenti mi rimarrebbe appiccicato addosso come una gomma sotto un banco di scuola.
Lì arriva la musica, mentre cammino, mentre dormo, mentre disegno, mentre lavoro, mi aiuta a levare un piccolo strato di lacerazione, e cerco così di volermi un po' bene perché se no non saprei come voler bene a qualcun altro, così la gente mi fugge dalle mani, e scappa da me, perché viene invasa da questa mia distruzione da quest’apocalisse interiore.
E rimango solo nella mia vita sbagliata.
La stessa cosa capita con i miei quadri, emozioni, sogni, paure, tutto scaricato su carta o tela che sia, con i colori della mia discromia o con il bianco e nero. Petrigno

La lingua del Santo si compone di otto tracce inedite. “Il Mare” che apre la tracklist è un brano scurissimo. Voci che sussurrano all’orecchio come fantasmi e che, un attimo dopo, esplodono in urla dannate. La chitarra inizia una melodia e ci accompagna fino alla fine della composizione; i synth si mischiano alle atmosfere portandoci nel profondo dell’animo dilaniato dell’autore. Il mare studia la nostra società, l’essere umano, quasi lo giudica. Il mare è l’unica cosa bella in questo mondo putrido. “Il cielo sarà tempesta e la terra non darà frutto”. Tutto è cupo, arido, tetro. Le costole dell’inizio dei tempi, divise male per creare un’umanità dedita al fallimento. Un’apocalisse preannunciata di cui ci rendiamo conto solo adesso.

Si passa poi a “Nella folla”, singolo che ha anticipato l’uscita dell’album. “Nelle stanze del silenzio, nella folla siamo soli, siamo logori e affamati, siamo folla e siamo soli”. Una chitarra distorta e gonfia come una ferita che palpita scandisce i silenzi di una voce che soffre e che parla di strada e di paure, di morte e di solitudine.

La tracklist prosegue con “Domani partirò”, un brano che parla di partenze e del lasciarsi dietro alle spalle le cose che non vanno e del cambiare direzione “che importa della vita, domani partirò”. Un blues trascinato e ritmato allo stesso tempo, calpestii di piedi, un piano famelico, una resofonica tagliente come una lama ed una vecchia chitarra elettrica, una batteria semplice ma che ci fa intuire, da subito, l’intenzione del brano.
La quarta traccia è “Fermati”. “Finisce la vita ma resiste la mia” Qualcuno è morto ma il protagonista no. “Fermati” è una lettera a qualcuno che ha lasciato tutto, una lettera che prova a spiegare che noi non molliamo e continuiamo al posto suo. Il brano è trascinato dal suono della batteria, la voce è sincera e racconta una perdita e il desiderio di ritrovarsi, di non lasciarsi andare. Una sirena richiama l’attenzione, tastiere discendenti che insieme a synth creano tensione, un pianoforte, scandito da note blues, ci fa rimanere ben saldi alla terra.

Si prosegue con “Il bar”, un brano a due voci e due chitarre, ci introduce dentro la vita di un uomo che si affida ad una donna completamente, nonostante il suo attaccamento all’alcol e al bar, un posto non fisico ma mentale che lo fa sentire al sicuro.
Il bar è una storia d’amore e di cambiamento.

La traccia numero sei è “Il bosco”, un brano intimo e sognante, è una presa di coscienza, una passeggiata nei boschi di Tolfa. L’elettronica si fonde con la voce e la chitarra acustica. La piena consapevolezza di quello che è accaduto e che ne conseguirà; l’arrivo di qualcosa e la fine di qualcos’altro. Fantasmi, catene e ticchettii, voci che lamentano un malessere recondito. Il bosco è una coscienza lacerata che ci parla in maniera schietta.

Si passa poi a “Ho perso” dove troviamo chitarre distorte, synth che cavalcano la notte più buia. Il brano si rivolge a qualcuno che sa bene quello che lo aspetta, quello che è, quello che è stato. “lui guida con le mani legate, gli occhi bendati attraverso i fantasmi”. La voce si graffia di più, l’apocalisse qui è centrale, cavallette travestite da scorpioni, pianti acuti di tormenti, la chiave dell’abisso, tutto per arrivare ad un finale gospel e folle come è folle l’uomo protagonista del brano.

Arriva come uno schiaffo al rovescio “Tu lo sai” la ballad di chiusura. “Tu lo sai” è un grido d’aiuto sussurrato. Nel brano l’autore si rivolge ad un amico scomparso, sapendo che lui è l’unico che può comprendere il suo dolore. Un pianoforte semplice ma doloroso accompagna una voce malinconica, dalle melodie antiche, della canzone italiana più lontana eppure più potente di sempre. Questo brano vede Andrea Manzoni accompagnare l’autore al piano. Tutta l’emozione impressa in un solo unico atto.

Credits

Scritto da Marco Petrigno
Prodotto, arrangiato da Valerio Mina
Registrato, mixato e masterizzato da Valerio Mina al Blackstar Recording Studio, Milano.
Suonato da Petrigno, Gloria Tricamo, Valerio Mina, Angelo Di Mino, Oana, Andrea Manzoni, Anna Balestrieri
Edito per Vina Records
Distribuito da Believe Music


L’artwork è disegnato a mano da Petrigno

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