di Pasquale Pierro
Ho conosciuto Pierpaolo Lauriola nel 2012 per via di un amico comune (e omonimo per cognome, a tal punto che ho creduto in un primo momento che si trattasse di un fratello, complice anche una “certa lontana somiglianza”). Il punto di contatto fu la musica; all’epoca mi divertivo a buttare giù su Facebook qualche riga sui dischi in uscita, in particolare su quelli che ritenevo più interessanti, e poi taggavo gli amici di cui conoscevo la passione musicale per ottenere un loro riscontro. Furono alcune mie “recensioni” ad attirare la sua attenzione nei miei confronti, a tal punto che volle inviarmi copia del suo primo album da solista, Polvere.
Non era la prima volta che mi capitava che la mia passione per la musica poi portasse alcune persone a chiedermi un parere sul disco della band di cui erano componenti, o dell’album di qualche amico, facendomi provare delle sensazioni miste tra senso di orgoglio ed imbarazzo, perché si rischia sempre che un semplice parere diventi in qualche modo “impegnativo”. Ma quello che non mi era mai capitato è che un cantautore incuriosito da poche battute su un social network, poi volesse rendermi partecipe delle sue canzoni, cercando non tanto il mio parere sul disco, ma soprattutto un legame rafforzato dalla musica, dalle origini pugliesi, e dalla curiosità verso qualsiasi cosa che restituisca il respiro vitale della creazione. E quel legame è artefice di un’amicizia discreta e preziosa, con momenti di condivisione sulle nostre passioni comuni, e tanto rispetto reciproco. Polvere. era un album registrato quasi integralmente in solitaria, fatto di una manciata di canzoni che riflettevano sul tempo, inteso non tanto come fluire delle ore e dei giorni, ma come dimensione fisica e metafisica, variabile dell’anima, di cui ci portiamo i segni dentro le nostre vite. La dimensione sonora era quella delle canzoni d’altri tempi, rievocando lo spirito solitario e drammatico del Bruce Springsteen di Nebraska, dove basta una voce appassionata e una chitarra per esprimere l’essenza delle cose.
Pur arricchendosi di colore, elettricità e vivacità ritmica, il successivo L’ego dal punto di vista tematico proseguiva il discorso intrapreso nell’album precedente, descrivendo situazioni e stati d’animo che non sempre si possono “vedere ad occhio nudo”, rievocando in un certo senso la mimica della scena finale di Blow up di Michelangelo Antonioni, e che poi dettano i passi della vita di un uomo. Pierpaolo si confermava autore di spessore, attento alla declinazioni delle singole parole, alla modulazione armonica del loro significato, e alla cura degli elementi sonori delle sue canzoni.
Giungono oggi queste “Canzoni scritte sui muri“, che, stando alle parole del loro stesso autore, nascono da un’esperienza con i detenuti presso il Carcere Minorile Beccaria, in uno speciale concerto che ha visto il loro coinvolgimento. Il disco ha come tema fondamentale quello della trasformazione, proseguendo così su quel filo rosso che lega anche i due album precedenti. Ma nello stesso tempo questo disco esce nel pieno della pandemia che ha reso ancora più precarie le nostre esistenze, più incerto il nostro rapporto con il futuro, entrambi segnate dallo spettro della morte e del dolore, e in qualche modo ne riflette gli umori, le ansie, le speranze.
Dal punto di vista stilistico comunque questo disco segna un notevole passo avanti nell’evoluzione di Pierpaolo, a tal punto che potrebbe addirittura risultare spiazzante, rinverdendo quelle sensazioni che in altri tempi hanno provato i fans degli U2 di fronte ad un’opera complessa ed affascinante come Pop. Ed è proprio riportando una frase di The Edge che mi sento di esprimere le mie primissime sensazioni davanti a queste canzoni: “Ѐ come quando compri una nuova giacca di pelle, e cerchi di capire se ti ci senti bene dentro, se aderisce bene sul tuo corpo”. In altre parole, una trasformazione ha bisogno sempre della sua sedimentazione per poter poi far fiorire bene le proprie sementi. E questo desiderio di trasformazione si avverte tanto in un musicista come Pierpaolo, soprattutto se come punti di riferimento ci sono autori eclettici come Bon Iver, Sufjan Stevens o i Radiohead, oltre a cantautori come Lucio Battisti, Fabrizio De André o Ivano Fossati.
L’album è pieno di contaminazioni, di suggestioni emotive, di sentimenti molto forti, e soprattutto di uno slancio comunicativo intenso e in alcuni punti addirittura incauto, a tal punto che l’autore non ha paura di svelare qualche sua “nudità”, messe immediatamente in evidenza nella ritmata traccia d’apertura, Le nostre fragili certezze, densa di spleen sintetici e ritmi funky, con le sue riflessioni sul passato e lo scarto tra “chi credevamo di essere e chi eravamo davvero”. Lo slancio verso il futuro tuttavia sta nelle radici che hanno permesso di costruire il presente, e ogni realtà è benedetta, anche quelle che lasciano cicatrici sulla pelle. Scudo e riparo, che è la canzone che ha lanciato il disco, è una ballata che parte in sordina, tra atmosfere sospese e progressione blues, e attinge a piene mani dal mondo del precariato e dai suoi tormenti. La soluzione non è l’isolamento, la rabbia senza via d’uscita, ma il prendersi cura l’uno dell’altro. Il terzo brano in scaletta è la title-track, stilisticamente molto vicina alle canzoni de L’ego. Il crescendo dell’organo, la ripetizione degli accordi delle chitarre elettriche, conferisce una sorta di enfasi strabiliante al ritornello, cantato in modo particolarmente sofferto. Nel testo viene evocata tutta una serie di sensazioni, ricordi di luoghi, momenti, persone, che segnano la vita di un uomo, e che poi vengono incise sui muri, sulla carne delle proprie esistenze. L’amaro miele è uno schizzo acustico ispirato dall’omonimo libro di Gesualdo Bufalino, che sulle prime fa pensare a Simon & Garfunkel, e si prende l’onere di descrivere i momenti creativi, gli stati d’animo che li accompagnano.
Tra tensioni poetiche e citazioni bibliche prese dal Libro del Qoelet si distende La memoria, su un tappeto sonoro sintetico, sul quale svetta un meraviglioso suono di sassofono in chiusura. Una goccia pura riprende testualmente una definizione che Bono dedicò a Jeff Buckley, e che Pierpaolo declina nei suoi affetti più cari. Il pezzo riflette tra le pieghe sonore alcune affinità con gli U2 degli anni ’80. Ti reggo al ballo le mani è il pezzo più vicino a De André, tanto che non è così difficile scorgere nei suoi movimenti melodici una certa vicinanza alla Disamistade del grande cantautore genovese. Ѐ una canzone densa di un fascino spettrale e di una forza poetica interpretata con grande trasporto. Il disco viene chiuso con la tenerezza dei ricordi lontani di Da uomo a padre, in cui Pierpaolo completa la sua ultima trasformazione: quella dell’età adulta, quando una persona smette di essere un figlio e diventa padre. ll flusso dei ricordi parla di partite di calcio ascoltare alla radio o viste allo stadio, pranzi della domenica dai nonni, e l’ambizione a voler realizzare i propri sogni. La citazione de La leva calcistica del ’68 di Francesco De Gregori condensa tutte queste metafore della vita, e continua a scacciare i timori di sbagliare, e tutto ciò che può intrappolare l’anima.
Alla sua terza prova da solista, Pierpaolo ci lascia un disco leggero e immediato come certe opere di Franco Battiato del periodo pop, senza scadere mai nel lezioso o nel retorico. Ѐ un artista dotato di buon gusto e senso della misura, ma anche di una curiosità creativa che lo porta ad esplorare continuamente. Sono del parere che Pierpaolo non abbia molto da invidiare a tanta altra gente del panorama indie italiano, e che sia dotato di un talento che meriterebbe la giusta attenzione da parte di un pubblico più vasto. Conoscendolo comunque so che quest’ultima nota è quella che gli importa di meno, perché per lui contano le canzoni e quello che sanno trasmettere. Il resto è solo rumore!
Canzoni scritte sui muri
Pierpaolo Lauriola
Descrizione
Credits
Pierpaolo Lauriola: voce, chitarre, basso, sintetizzatore
Antonio Riccardo: batteria, piano, tastiere, sax
Francesco Coletti: sound engineer
Roberto Colombo: batteria in "Scudo e riparo
Alberto Cutolo: Mastering Engineer
Prodotto da Pierpaolo Lauriola, Francesco Coletti e Antonio Riccardo
Sergio Salamone: coautore dei testi in "Ti reggo al ballo le mani", "Scudo e Riparo
Registrato al Massive Arts Studios
La copertina dell'album è stata disegnata da Angelo Pacifico.
Foto e artwork: Giuseppe Biancofiore.
Etichetta: La Masseria Della Musica.
Distribuzione: MEI Digital.
* L'amaro Miele è ispirata all'omonimo libro di poesie di Gesualdo Bufalino.
© Tutte le canzoni sono di Pietro Paolo Lauriola e sono regolati dal diritto d'autore italiano via SIAE.
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