E' oneroso sfilacciare un album dei Larsen e ricomporne le trame. Specie con (quasi) un anno di ritardo. Perché, mai scoperti né veramente compresi dal nostro Grande Pubblico – quello della musica come cultura, battete un colpo ogni tanto – i Larsen sono uno dei pochissimi collettivi italiani apprezzati e seguiti oltreconfine. Con un peso artistico, dunque, che li rende credibili al fianco di quella lista interminabile di mostri sacri (David Tibet? Michael Gira?) con cui, in quattordici anni, hanno condiviso progetti/dischi/concerti. Mentre in patria, anche a causa di un hype pressoché assente, il quartetto si trova relegato nei confini torinesi di sporadici eventi che altrove avrebbero un richiamo internazionale: nel 2007 era "Abeceda", video-testimoniato dal britannico NME e poi confezionato in doppio vinile, oggi è il recente "Canto del vuoto tagliente", con Current 93, Z'Ev, Nurse With Wound e Larsen sotto il medesimo tetto.
Da sempre affascinati dalla scrittura di colonne sonore e musica per il cinema, lo stesso "La Fever Lit" (come altri album in passato!) nasce da un'esperienza trasversale: immaginate la Mole Antonelliana in abito teatrale, studi e suggestioni di architettura urbana e la follia avanguardista di un mediometraggio fantascientifico ambientato in una Torino ricreata al computer. Il vinile "LLL", pubblicato in contemporanea all'album, racconta tutto ciò in una versione ancora più cinematografica; ma i brani erano quelli di "La Fever Lit", successivamente estesi e ricuciti in una veste più consona al long playing.
E si tratta senza dubbio di uno dei più suggestivi album dei Larsen. Una musicalità minuziosa ormai perfettamente riconoscibile e genuina, dal lirismo intenso eppure lieve soffice evanescente tenue conturbante come nuvole al tramonto. Esemplificato nei costrutti strumentali, tra delicate intarsiature di loop sovrapposti in una rara percezione d'insieme, eppure così immaginifico nelle sue progressioni circolari. Tra disegni di violoncello e ritagli elettronici, gli elementi rotondi che si rincorrono in un gioco di assonanze costituiscono la raffinata poetica sonora del quartetto: campanellini disciolti in un'eco rarefatta e vaporosi strascicamenti di fisarmonica come sovrastruttura di una melodicità sognante e addormentata. Come gli Swans di "Soundtracks for the blind" edulcorati dalla malinconia.
Ma ciò che rende meraviglioso questo album è la ruvida presenza di Annie Anxiety Bandez (già diva con Crass, Coil e Current 93): una fisicità vocale immensa e narrativa, irrigidita nella durezza degli anni eppure dall'anima così fragile e compassata. Solo lei, con quel ruggito sublime e sofferto da smokey contralto, restituisce alle vicissitudini della vita quella malinconia nobile che nella poetica dei Larsen pareva prima così ultraterrena e idealizzata, incapace di scalfire. Lei, con la sottoveste nera come Anna Magnani, dà appuntamento al suo Giancarlo Giannini in un incrocio surreale di architetture urbane ('Neon paves the way to heaven', canta in "Lefrak City Limits"). Ma è capace di una poesia crudele, quando riporta alla luce il mistero di quell'amore accecante e rovinoso: "When I first was frozen by the glory of his icy mighty beauty / In a world turned monochrome by hatred misery and sorrow […] / And I needed to believe that its possible for flowers to bloom in hell / […] When he left he took my breath with him / And the grief made me crazy bony and mean / Still I needed to believe that its possible for flowers to bloom in hell" ("Flower"). Ruvida, atonale, post-moderna. La figura di Little Annie appare qui come l'ideale completamento dell'emotività vaporosa e romantica dei Larsen. Quell'ancoramento terreno che impedisce alla poesia del quartetto di levarsi completamente al cielo e dimenticare i rumori e le lacrime della vita.
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