Carmine Torchia non si ama né si odia. Costringe piuttosto a spostarci costantemente lungo l'infinito spettro di opzioni e possibilità che sta nel mezzo. Così come il cantore calabrese non si concede minimamente neanche l'idea di immobilismo e si diverte, come a voler disorientare gli ascoltatori, cambiando continuamente registro. Sognatore o materialista? Intellettuale o romantico umorista? Difficile affibbiargli un'etichetta che lo identifichi alla perfezione.
Tanti i riferimenti. Musicalmente si spazia tra ritmi iberici, Battiato, Capossela, tradizione popolare e vecchi vinili anni sessanta. La cura dei testi è evidente e si salta dal politicamente impegnato alle ballate romantiche fino alle storie che strappano un sorriso alla Dente. Ogni dettaglio è perfettamente calcolato e misurato, alla ricerca di un equilibrio tutto da apprezzare che non lascia su un piano isolato chitarra e voce, e lo si nota dalla lunga lista di collaboratori che hanno partecipato a questo disco. Arrangiamenti di archi perfettamente congegnati arricchiscono il suono di tutto l'album, mentre l'inserimento di note elettroniche conferisce un sapore minimalista quanto fuori posto.
Se si potesse osservare "Mi pagano per guardare il cielo" attraverso un elettrocardiogramma il risultato che ne otterremmo non sarebbe sicuramente una linea piatta ma una serie di schegge impazzite. Adatto ad una locanda frequentata da visi divertiti con una o più brocche di vino d'accompagnamento su tavolacci di legno macchiati da scene triviali che si perdono nella memoria. Difficile al momento immaginarlo altrove.
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