In Italia, negli anni settanta – prima dell' avvento devastante della musica elettronica – uno dei generi più seguiti era il prog. Nel contesto di una società post-boom economico, gruppi come Area, Pfm, Osanna descrivevano le ansie di quel periodo, le contraddizioni, le nevrosi, le paure costanti ed incessanti. Risultato di tale movimento culturale furono album manifesto come "Arbeit Macht Frei" degli Area, oppure brani simbolo come "Milano Calibro 9" degli Osanna.
Con il passare del tempo tale tradizione è evaporata. Riscontrare un approccio simile nell'indie contemporaneo è quantomeno raro, fatti salvi alcuni lodevoli casi, ad esempio gli Zu. Fortunatamente, si possono ancora apprezzare alcune rielaborazioni. E' il caso dell'esordio dei LvQ.
Un lavoro discografico connotato da un interessante commistione tra prog italiano tradizionale e le tendenze compositive dei tempi nostri, in una miscela ricca di tracce trip-hop e post-rock. Ovvero le bastarde genìe del prog o del kraut rock di epoche passate. Sette tracce fluide, ectoplasmatiche come fluido di coscienza della nostra società, un Io collettivo che vacilla tra i segni del passato e la follia del presente, aleggia tra gli shock della nostra storia e le alienazioni del nostro presente.
In ogni lavoro artistico è presente una imprecazione, una bestemmia, un grido d'aiuto. Un invito al silenzio, come ripetuto in "-", sembra essere la volontà generale di questo disco. Un desiderio tra l'utopico ed il disperato, in questi cazzo di anni zero. Una richiesta ricca di senso, in quest'era da sovraccarico cognitivo.
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