Esistono dischi impregnati di una sorta di genius loci, che li attraversa e che li plasma, che siano luoghi fisici o luoghi mentali. Non sono la cascina di "Epica Etica Etnica Pathos" dei CCCP, né la casa inquieta dove Tori Amos ha cantato "Under the pink", le macerie di Andrea Venezia (in arte VeneziA), ma hanno a che fare con un "posto" in cui i pensieri vagano in una geografia precisa e nient'affatto confortante, fatta di stanze vuote e desolazione.
Una Sicilia scura, dove rimbomba l'eco di suoni ridotti all'osso (un cembalo, un'armonica, quello che si riesce a salvare da una casa che crolla), e una voce spettrale quasi fino all'esasperazione, che cammina in bilico tra declamazione e canto. Parole buie e dense come l'aria fredda delle caverne, macerie di un'anima che conta le illusioni andate perse, le sue e quelle di altri, e le demolisce con costanza metodica, con una furia piegata da una disciplina ferrea.
VeneziA si obbliga ad un incedere lento, a evitare gli strappi e le esplosioni, ma allo stesso tempo concede poco slancio ai suoi pezzi, e allora gli sprazzi migliori sono quelli in cui si lascia trascinare da ritmi di blues e filastrocche ("Whisky harp", "Il pozzo"). Si entra nell'antro perplessi e impauriti, si fatica a trascinarsi fuori, a cercare un cielo qualsiasi tra i buchi delle travi del tetto. E probabilmente, su queste macerie, è ora di cominciare a ricostruire.
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