Lontananze e struggimenti, temporali e rivoluzioni. E' una confessione intima, che non accetta le scorciatoie dei sentimenti che non lavano via tutta la sporcizia che c'è intorno, le parole dette senza il giusto peso, le distanze che non siano necessarie, quella che Giuliano Dottori dice di voler affidare al suo secondo capitolo musicale. Il fiato sospeso in aria, tra melodie dalle architetture carezzevoli e il canto intimo di un autore che prova a intingere la penna nel petto che fa ancora male. La semplificazione come valore aggiunto. Dottori, cerca e trova il suo spazio nella scena cantautorale degli anni 0, con pathos discreto e facendo compiere moderati passi al suo progetto di songwriting rispetto agli esordi. Innegabile è l'evoluzione in senso introspettivo e acustico, l'apertura strumentale, il lavoro sulle atmosfere circolari. La lama non è però sufficientemente affilata, le dichiarazioni emotive non sono libere di sgorgare in un oceano musicale scevro di recinti, la compostezza soffoca spesso il canto libero. Un lavoro troppo ponderato, che rimane se si esclude la bellezza di pura meraviglia del pezzo inaugurale a cui si affida il compito di aprire le danze e di alcuni episodi centrali, eccessivamente imbrigliata nei riferimenti musicali di illustri predecessori: certe soluzioni vocali, certi escamotage verbali, si nutrono infatti delle suggestioni di moltheniana memoria e faticano nel masticarle a buttare via l'osso. Da premiare la fragilità di alcune melodie, ma gracile è ancora il tentativo di abbandonare armature affettive e musicali. Non ci sono deflagrazioni, nella cura innegabile di questo lavoro, le corazze purtroppo imbrigliano troppo spesso la carne. Rimane la certezza delle potenzialità ancora inespresse, di un personale Godot che abbia corpo e sostanza, di un quadro per il Giuliano Dottori che verrà che si proponga e riesca a frantumare la cornice.
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