Alle implicazioni da importazione sub culturale bisogna farci il callo, altrimenti si rischia di andare fuori strada qualunque sia la materia in questione, ma soprattutto se si parla di pop punk. Catalogare il 90% delle band italiane come cloni standard di Green Day, Offspring, Sum 41 è un giochino stupido e idiota. In fondo, rimanendo in campo punk, non c'è nulla di contestabile in chi tinge il proprio vessillo di sonora filosofia monocromatica. Si potrebbero semmai avanzare accuse di conservatorismo, ma questo è un altro discorso. Permane però la validità del contenuto, quello da cui capisci se cestinare o no il materiale che hai in mano, e "La Fabbrica Dei Mostri" sotto questo aspetto ondeggia molto. In alcune parti sembra infatti che i Duracel stiano ancora suonando esclusivamente per gli amici della sala prove, sbroccando tra una birra e l'altra e tirandosi addosso pugni di risate. Nulla da eccepire se non fosse che quando tritano al meglio i ricordi adolescenziali la sostanza cambia (vedi "Vieni al mare con me" e "Largo Tempini") e il respiro si fa più ampio e fitto. Quale dei due volti paghi di più non si può dirlo con certezza, se la coolness cazzara o la cazzosità international, ma l'autoanalisi di "Quasi identici" fa ben sperare, ricordandoci che i Duracel sono ben consapevoli di quello che fanno, e nonostante i tanti anni di gavetta riescono ancora a non prendersi sul serio. Un bel passo d'onestà per il pop punk nostrano.
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