Un artwork di rara eleganza tra florilegi psichedelici e calembour linguistici - lo stesso titolo del disco destruttura simpaticamente il nome della reale residenza inglese - ci schiude l'epica magica dei Mammooth, band di maturata esperienza con sede in Roma.
L'elettrico melange dell'intro ci apre le porte di "What a Mess", funk muscolare che si tinge di toni drammatici e vagamente black, come se gli ultimi Tv On The Radio incontrassero il 1984 degli ormai ingiustamente dimenticati Soul Asylum. "Gone" è ballata nera e nichilista, che sostanzia certi riferimenti a gruppi più vicini nel tempo come Grant Lee Buffalo e Stone Temple Pilots. Cavalcata epica dal sapore post nella quarta traccia, tra granito di chitarra e synth di deriva chicagoena, Tortoise e Trans Am a fare da sponda. E sebbene il gruppo annoveri Massive Attack ed Air tra le sue influenze, non disdegneremmo di annettere come accoliti anche Genesis e Marillion - e le similitudini con l'espressività di Fish sembrano davvero dimostrarlo. In "Good News" la dolcezza del piano incontra le liriche di un cantato ispirato e caldo - si respira aria alla Boards Of Canada - percezione di vastità sonore ed esplosioni post-Seattle nel finale.
Gli anni ottanta dei Devo, dei Police e, perchè no, il '75 dei Neu!, risultano essere qualcosa in più che la semplice ossatura per la sesta traccia, "Me At My Most", episodio a mio avviso tra i più riusciti dell'album. La settima traccia poi è un magistrale sunto strumentale dal gusto electro-indie, eco di certe ultime derive dei Mercury Rev.
Tra elettronica, hard-rock, funk, psichedelia e derive kraut-progressive, ecco il monolitico pamphlet di un un suono già ampiamente celebrato, ma eternamente inesausto. Di rara raffinatezza.
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