Ad ascoltarlo in radio, a osservarlo esibirsi in tv con quella faccia un po' così vengono in mente Tonino Carotone, il suo mondo difficile e le sue vite intense. Non è solo questione di look: Alessandro Mannarino ha già avuto il tempo di ritagliarsi un ruolo da cantore delle diversità, degli zingari sgombrati e infelici, di esiliati e ribelli, di chi si aggrappa a una bottiglia (di vino) per dimenticare. Per questo e per altre ragioni, la sua musica sarebbe forse piaciuta anche a Fabrizio De Andrè, se non fosse per un collegamento all'apparenza sin troppo blasfemo e per non restringere "Bar della rabbia" alla classica opera prima del cantautore legato a stilemi sin troppo classici se non anacronistici. Perché Mannarino lega il suo nome anche a certe atmosfere che possono ricordare quelle di Tom Waits (ascoltare "Soldi" per credere), passa vicino anche ai Balcani ("Amore nero"), scambia opinioni con Manu Chao, recupera gli stornelli romani ("Al bar della rabbia") e gioca con l'immancabile taranta (ma "Scetate vajò" sembra il saltarello marchigiano…). A ben vedere, ci sono tutti i numeri per trasformare Mannarino nella "next big thing" dell'universo no global dello stivale: compresi nel prezzo, ecco il solito pezzo anti-governativo ("Svagliatevi italiani"), quell'enfasi che a volte disturba non poco e persino una bella canzoncina ruffiana adatta all'heavy rotation da etere che male non fa ("Elisir d'amor"). Resta da vedere se, passata la sbornia in compagnia di Serena Dandini e company, qualcuno si ricorderà ancora di "Bar della rabbia". Ma si presume di sì.
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