Disordine, qualche ricordo, quello che rimane della festa la mattina dopo, quando la luce torna ad illuminare la stanza. Quello di Micol Martinez è un debutto pieno di grazia, dallo spirito malinconico, in perfetto equilibrio fra la ricerca dell'intimità acustica e il fragore delle camere orchestrali. Una sensibilità meditata e adulta di un'autrice eclettica che riesce felicemente a fondere il cantautorato (esiguo per la verità) femminile italiano, fatto di scrittura emotiva e canto melodioso con le suggestioni odierne del rock più contaminato. Al servizio della propria musica recluta una micro orchestra di strumenti: dai fiati di Enrico Gabrielli ai violini di Rodrigo D'Erasmo, passando per il basso di Roberto Dellera. Arrivano poi le chitarre nere di Cesare Basile che non solo firma insieme a Luca Recchia la produzione di "Copenhagen" ma presenta la femminea cantautrice al grande pubblico, conferendo robustezza e credibilità al lavoro d'esordio. Un artigianato identitario, accurato e perfettamente riuscito nel contesto d'elezione. La scrittura ha una buona messa a fuoco, compatta, concentrata e avvolta sulla forma-canzone. Il tono umorale di alcuni suoi passaggi sonori, l'accompagnamento costante con la chitarra, gli arrangiamenti ora morbidi, ora spigolosi e infine un procedimento narrativo che si snoda per immagini, fanno di questo lavoro un album compiuto. Un esperimento riuscito tanto quanto si abbandona verso territori attraversati da galoppate rock che quando sceglie un registro più confidenziale, arpeggiando squisite ballate in punta di chitarra. Aspettando il tempo giusto e augurandosi un salto nel vuoto senza rete di sicurezza, la cantautrice lombarda potrebbe avere di fronte a sé un futuro roseo e interessante.
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