Tromba, basso e batteria. Già dalla formazione qualche indiesnob avrebbe un'erezione. Ma fate attenzione, prego, qua non si parla di jazz-core alla Zu o sperimentazione da musicista intellettuale. I Black Wojtyla, da Milano, nascono come un gruppo la cui musica stimola più la pancia che il cervello e ti catapulta dentro una situazione violenta, agitata e irrefrenabile.
L'esordio omonimo e autoprodotto di questo trio è una commistione di jazz e rock strumentale che nella bolgia dei suoi 30 minuti deborda di frequente verso numerosi generi, come l'eccitazione di un brano dance ("Angelo Azzurro"), la brutalità di un metal primigeneo ("Corsetier") o ancora il trasporto di un punk gitano ("El Topo", "Mitch").
Il tutto è alla costante ricerca di un climax sonoro, e lo svolgere dei minuti dà la stessa sensazione delle colonne sonore dei vecchi videogiochi che all'esaurirsi del tempo aumentavano di velocità, frenesia e ansia. Ma la vera forza dei Black Wojtyla è di non sembrare mai scontati quando se ne vengono fuori con tempi dispari, slap di basso e vari stratagemmi sonori che ti fanno dire "l'ho già sentito fare un milione di volte". Questo perché i tre lombardi non suonano mai banali e seguono con criterio il tentativo di sfuggire alle definizioni; come i Primus quando non erano ancora diventati noiosi.
Ma a rovinare la festa arrivano sempre i critici che hanno fatto indigestione di dischi strani e cercano sempre di etichettare tutto quanto. E chi siamo noi per essere da meno? Per dare nome ad un nuovo genere dobbiamo prendere uno stile centrale, attaccarci un aggettivo significativo, quindi mettere un prefisso autoritario e poi un suffisso grintoso.
Post-gipsy-jazz-core?
Ottima, questa definizione per i Black Wojtyla calza a pennello.
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