Stefano Pilia
Onrushing Cloud [W/ Belfi, Grubbs] 2010 - Sperimentale

Onrushing Cloud [W/ Belfi, Grubbs]

Ammutolito. E' così che mi ha lasciato, dopo neanche un paio di ascolti, questo vinile speditomi non più di un mese fa da Brooklyn, New York. David Grubbs e la sua Blue Chopsticks su carte e francobolli dall'altra parte dell'oceano. Una strana cortesia, perché dopo Squirrel Bait e Gastr Del Sol, tra lavori con Jim O'Rourke e soundtrack con i Matmos, oltre alle installazioni sonore per Angela Bulloch e una rispettabile carriera accademica, non pensavo che avesse tempo per incartare dischi e press release.

Sempre New York, primavera 2009. Stefano Pilia e Andrea Belfi sono invitati dall'Harlem Studio Fellowship nell'ambito del residency program della galleria. I tre già si conoscono, e non si lasciano scappare l'opportunità di poter suonare insieme. Da un'immersione così estrema nel pulviscolo artistico della metropoli non poteva che scaturire un disco meraviglioso, e non esagero. Minimalismo elettroacustico dal carisma descrittivo fuori dal comune. Un tentativo (riuscito come pochi altri) di distruggere e ricomporre quelle sottili trame identificative di una forma-canzone primordiale. Come? Asimmetrie tese e incostanti tratteggiano un raro equilibrio di sapori folk-blues da tradizione e costruzioni post-moderne. Sottili e fuggevoli incroci chitarristici e tones-on-tones su tele tese nel vuoto, in un pugno di note sufficienti a Grubbs per narrare romanzi e su cui Pilia ammaestra umori ed emozioni. Trame rincorse cullate sovrastate da elaborati armonici (Oren Ambarchi?) e delicati artifizi da drone music, di cui Pilia è ormai acclamato maestro (e più nella sua discografia solista che con 3/4HadBeenEliminated). Impressiona l'assenza di quel timore usuale dello spazio vuoto, qui fantasiosamente maneggiato dal burattinaio Belfi con un vocabolario espressivo inedito. Sottesi fruscii acustici rubati al jazz e un miscuglio dal gusto così avant-garde per la contaminazione elettro-meccanica del suono. Sono impercettibili variazioni tonali fatte oscillare nel rumore come un Tony Conrad d'altri tempi, in una fusione indissolubile di timbri acustici, acuminate o profonde elaborazioni elettriche, rumorismo. E le forme così abbozzate e corrotte, inaspettatamente, si risolvono poi in una canzone vera e propria: "Onrushing cloud" è il valico sul quale transita l'intero album. Dopo l'astrattismo radicale ("Nitrated out") e ulteriori evoluzioni circolari (il tessuto pianistico in "City rats on mountain pass"), la scena schiarisce improvvisamente rivelando morbidi accordi di chitarra e la voce polverosamente cantautorale di Grubbs. Un contorno di drammaticità narrativa fino al commovente apice conclusivo di "Lightning vault", dove chitarre accartocciate e rumorosamente ripiegate su sé stesse si distruggono, collassando laceranti e tese, in un rovinio di distorsioni rugginose da cui emerge una tremante melodia, fragile e soffocata, timorosa di sfinire senza avere tempo di risolversi. Un crescendo acustico vertiginoso e il non-ritorno al tema d'apertura.

Trentuno minuti per un piccolo capolavoro che rischia di passare inosservato.

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