Sventoleremo le nostre radiografie per non fraintenderci.
Ma basterà?
Ognuno vede sempre e solo quello che vuole vedere. E sente solo quello che vuole sentire.
Così questo 2° attesissimo disco de Le Luci Della Centrale Elettrica e ognuna di queste 10 canzoni: quanti malintesi si porteranno dentro, quante epifanie, quanti sbattimenti, quante rinunce, quanti slanci, dentro quante lettere d'amore scritte al computer(che ci fregano sempre) finiranno?
Per tradirsi per brillare come le mine e le stelle polari.
Ci fraintenderemo eccome, te lo dico io, adesso che quando ci parliamo i nostri aliti fanno delle nuvole.
Che bello questo disco. Iniziamo?
Falliscono le compagnie aeree le banche le case discografiche, e chi se ne frega...
Musicalmente è una riconferma del precedente, oltre che un arricchimento ulteriore. A questo giro c'è una vera e propria "orchestrina distorta" a tessere la trama delle canzoni: Stefano Pilia (dei Massimo Volume), Rodrigo D'Erasmo (degli Afterhours) ed Enrico Gabrielli (già con Calibro 35, Vinicio Capossela e Mike Patton), oltre a Giorgio Canali a bere pastis nelle retrovie come un anarchico padre spirituale. Produce ancora il collettivo La Tempesta. Non si cerca di stravolgere niente, semmai di riconfermare approfondire ribadire: tutto è in equilibrio perfetto, anche le (poche) sbavature, anche le (piccole) ingenuità, con (in più) delle soluzioni inedite tipo il crescendo di "Per respingerti in mare" che è da togliere il fiato.
E poi i testi, quei testi per cui il progetto Le Luci è tanto amato/odiato, ormai addirittura a priori. Che hai voglia di sgolarsi nel microfono non c'è niente da capire non c'è niente da capire non c'è niente da capire, da capire ce n'è eccome in un disco delle Luci, a partire dal titolo preso in prestito da una frase di Leo Ferrè, e poi brandelli e citazioni di canzoni, libri, film e quant'altro (Tondelli, De Gregori, CCCP, De Andrè, Pasolini, etcetc). Ma attenzione non è un frullatore, assolutamente, semmai è il tempo che viviamo ad essere un frullatore e la realtà in cui viviamo un Blob (e le repubbliche democratiche fondate sui telespettatori). E quello che fa Vasco Brondi, è come tuffarsi in questo blob-flusso, in queste scie elettroniche, come un sub in apnea, muovendosi a diversi livelli di profondità, di onde, di correnti, di depositi, e riemergendo, con le immagini che gli rimangono, selezionate come fotografie digitali, o attaccate addosso come alghe, riproduce/riscrive le sensazioni dell'immersione. Canti di sirene e pubblicità comprese. E se vi sembra troppo naturale come visione traslate il tutto nella variante sintetica delle onde, ovvero il flusso mediatico che è la nostra realtà. E se vi sembra troppo poetica l'immagine del tuffo pensate a un'antenna, ferma in mezzo a un temporale alle nuvole a flussi di informazioni. E captare tutto questo contemporaneamente, e decifrarlo. Perchè bisogna essere un'antenna particolarmente sensibile per intercettare il codice cifrato di questi confusi anni zero. E poi riuscire a riprodurlo senza snaturarne l'essenza.
Parlavamo delle nostre interiorità come fossero delle metropoli
Provate a vederla così: come un cervello/computer sovraccarico dai miliardi di input della giornata che di notte si riformatta, mette ordine, stila lunghi elenchi di cose-fatti-suggestioni-luoghi-persone, come righe di codice, appunto, come se quello che ci gira attorno non fosse la Vera Realtà ma Struttura (Matrix docet) e non abbiamo pilloline rosse o blu per capirla, ma canzoni-flussi, perchè siamo e restiamo esseri umani, per un malinteso senso del progresso.
Poi si potrebbe fare i fighetti intellettuali e tirare in ballo la società liquida di Bauman, i non-luoghi di Virilio, la morte della realtà di Baudrillard, si potrebbe, ma non serve a nessuno, sarebbe come sovraccaricare il discorso e distogliere l'attenzione da cosa rende queste canzoni così importanti: l'Umanità. Perchè è tutta lì la forza e la bellezza delle Luci Della Centrale Elettrica, l'umanità straripante, a tratti struggente, l'empatia che si sprigiona naturalmente con chi ha anche solo un barlume di sensibilità. Come se nel deserto devitalizzato di queste nostre città, nel blu oltremare delle nostre anime assiderate, nelle bolle di vetro delle nostre solitudini, Vasco riuscisse a fare definitivamente breccia, con i suoi flussi di immagini che toccano i nervi o tendini o muscoli o ventricoli, rivitalizzandoli, elettroshock emotivi, che ci metteremo a tremare come la California amore, nelle nostre camere separate, a inchiodare le stelle a dichiarare guerre, a scrivere sui muri che mi pensi raramente, che ci fregano sempre. e questa, volente o nolente, si chiama "poesia". Poi qualcuno per sminuire dice pagine di diario di un qualsiasi adolescente. e sticazzi. a parte che nè io nè i miei compagni di classe scrivevamo così (e più in generale non mi sembra che attualmente nelle scuole d'Italia il livello sia altissimo), anyway, semmai delle ipotetiche pagine di questo ipotetico diario hanno la forza, il coraggio, la purezza e l'intransigenza. Cioè la Bellezza. E soprattutto uno stile proprio. Uno stile personale al 100%. Fin dal primo disco (e se questo disco è simile al primo tanto meglio, vuol dire che il primo non era un caso ma l'inizio di un progetto di spessore). Perchè un altro merito che va riconosciuto alle Luci è quello di aver a suo modo contribuito a definire sempre più un genere: il cantautorato punk, cioè aver preso gli stilemi del cantautore e quelli del punk e, come lui stesso tiene a spiegare (vedi intervista), aver fatto cortocircuitare questi 2 mondi all'apparenza agli antipodi (aggiungo solo che prima delle Luci qualcosa del genere lo troviamo già in Fiumani, nel primo Bugo e in Babalot. oltre che ovviamente nell'approccio radicale alla forma canzone degli imprescindibili CCCP e Massimo Volume).
Insomma, sembra non ci siano (quasi) melodie eppure ci sono (quasi) canzoni. E' tutto lì, tutto in quel (quasi). E a noi, sarà perchè siamo (quasi) adatti, piace da impazzire.
Punto.
E per ora noi la chiameremo Felicità.
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