Pleasure Fine 2001 - Rock

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A quale prodiogioso miracolo della natura avremmo assistito se la buonanima di Frank Zappa avesse prodotto un disco dei Red Hot Chili Peppers?

Purtroppo non lo sapremo mai, ma al recensore di turno piace giocare con la fantasia e, forse esagerando, risponderebbe di buon grado che un ibrido del genere avrebbe forse portato ad un lavoro simile a “Fine”, dei piemontesi Pleasure. Un disco sorprendente, ben suonato e ben fatto, sin dalla corposa confezione, un recipiente in legno dalla forma di un portasigari. Un modo originale per presentare un lavoro che mescola come meglio non potrebbe la ruvidezza del rock, le invenzioni del funky, e la libertà espressiva, quasi anarchica, che trascende dalla più rigorosa forma canzone. Un crossover a tutto tondo, che funziona perché diverte - e forse potrebbe fare di più e meglio se venisse dato spazio maggiore ai fiati. Ma non è il caso di sottilizzare: con un disco così basta avvicinarsi al lettore che la festa può avere inizio. Si comincia con “9T9”, viaggio ipnotico tra la voce di un ispiratissimo Jonathan Manning e una band dedita ad una forma incontrollata di potente narcisismo. Un binomio perfetto, che apre come meglio non si potrebbe il disco. Con “Know in time” il ritmo si raffredda, la chitarra affila un pezzo che sembra scritto dai già menzionati RHCP. La temperatura torna alta con “Wake’n’bake”, con la quale la band torna ad esprimersi sui suoi ritmi free, liberi cioè da qualsiasi limite che non sia quella della pura invenzione. Sullo stesso piano “Mussels”, con i fiati finalmente protagonisti e qualche accenno di pazzia, come l’inserimento della voce di Martellini (il telecronista di calcio) e del suo ormai classico “Campioni del mondo!”.

Surfside melody” non aggiunge granché alle cose ascoltate in precedenza, tanto da scivolare pian piano fino a “Mickey Mouse song”, la più bizzarra delle canzoni dedicate a Topolino, quella che comunque permette ai Pleasure di tornare a brillare di luce propria. “Gone to rhyme” è un bel pezzo, il più ortodosso, quello che più si avvicina a quella forma canzone dalla quale la band cerca di rimanere lontano. Seguono svariati minuti di silenzio (oltre 40!) ed arriva anche la ghost track, curioso carillon di soundcheck e cazzate varie con le quali il cd si chiude. In ultima analisi, un buon lavoro, che si spera non passi tra l’ottusa indifferenza dei nostri discografici.

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La recensione Fine di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2001-09-30 00:00:00

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