Avevamo lasciato i Dirtyfake con un Ep, "Dreams", che ne aveva annunciato le potenzialità: un felice matrimonio tra sonorità '80 e idee '90. Giunti alla prova dell'LP si dimostrano all'altezza della situazione, riconfermando i brani già presenti nell'Ep, come la open-track "My indiecation", o rivedendoli sotto arrangiamenti più pensati e maturi – è il caso di "Hollywould", brano di rara bellezza che si era fatto già notare, e che in questo disco, grazie all'apporto dei VivaSantaClaus e all'introduzione di cori, diventa non solo un accorato anthem, ma un inquieto e inquietante corale dall'atmosfera misteriosa e soffusa.
Il solito gusto per i giochi di parole si accompagna ad una nuova sperimentazione stilistica ("Plumfake", un tuttiquantivoglionfareiljazz, un night-club dove suonano i nonni dei Pavement), senza rinunciare alla prima ispirazione che è sempre quella dell'indie rock nelle sue disparate sfumature degli anni '90: il grunge ("Esc(ape)"), i Radiohead ("Heaven't"), i Karate ("Code-in"). Un disco solido, completato dai bei testi firmati Fabrizio Byron Rink, che riesce anche a personalizzare maggiormente un timbro di natura troppo vicina a quello di Brian Molko.
Ciò che distingue definitivamente i Dirtyfake è un innato senso della melodia, che spicca dall'inizio in maniera preponderante, tanto che l'unico rimprovero da muovere necessariamente a questa band è la scelta della disposizione dei pezzi in scaletta. Si bruciano troppo presto i due brani decisamente più forti del disco, "My indiecation" (giustamente estratta come singolo) e soprattutto la già citata "Hollywould", punto massimo di tensione, breaking point di un climax che andava posto più avanti nel disco per mantenere le aspettative che un brano di tale importanza implicitamente crea. Il resto del disco, seppure notevole, frana, schiacciato da tutta questo irripetibile pathos.
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