Lo sai come ci si sente ad essere giovane e paranoico? Chiede Jessica Einaudi in "Galactic Boredom". Certo che lo sappiamo, se non lo sapessimo non ascolteremmo questa musica. Così oscura e ossessiva, e però allo stesso tempo così sognante, consolatoria, pop. Con quel modo di cantare un po' intellettuale un po' dark-rock. Con quel pianoforte e quel violoncello che ricamano trame fitte di rimandi a tutta la musica che ha cullato i nostri sogni e incubi di giovani paranoici. Con quell'elettronica che si insinua senza fare troppo rumore, come nel quasi ambient di "Black Girl". Con quell'immaginario un po' da racconto di brughiere che si dispiega nel folk di "Sound Of Marbles". Con l'andamento orizzontale di canzoni all'apparenza ripetitive, troppo lunghe, costruite su un accumulo graduale di strumenti che amplifica l'effetto ipnotico. Con i pezzi nati per essere singolo da airplay pesante ("Firefly", il singolo appunto) e quelli che, come "Temples Burning", in un attimo tanto fluido da essere impercettibile, passano dalla dark ballad alla psichedelia. Con il romanticismo a due voci ("My Ear Is A Shell"), il dream pop di "Spell On The Hill", i confini artistici che si ampliano a contenere tutti i luoghi del rock e dei cantautori e delle cantautrici. E sarà per la sapienza di papà Ludovico, qui in veste di produttore, o sarà semplicemente per quello che chiamano talento, tutte queste suggestioni e ispirazioni danno vita a qualcosa che non è nuovo, non è sorprendente, ma in cui è facilissimo perdersi. Anzi annegare, come cantano ancora nella title track: "Let's drown together into galactic boredom". Con piacere.
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