Lavoro. In fabbrica. Otto ore al giorno. Ma ci metto il cuore, cavolo. Fatico duro (per un futuro al cianuro?). E non venirmi a dire di segnare sul Moleskine gli atteggiamenti della nuova classe operaia: puf, alzo la spalluccia davanti alle tue filosofie, io, e te lo domando a voce salda: esistono ancora gli intellettuali veri, quelli preoccupati di dare un verso migliore a questa attualità?
Avere a ventiquattro anni un disco di Bob Corn tra le mani non so davvero quale stupore possa regalarmi. Non so, davvero, se aspettarmi stupore. D'altronde in questi anni non c'è mai stata, nel mio approccio alle canzoni di questo omino barbuto, meraviglia né sorpresa. Mai una novità (hai presente quelle manie sulla necessità di progredire sperimentare evolversi? Ecco, no). Perché fin dal suo esordio Bob Corn è stato sempre fermo là, accomodato sulle sponde della sua delicatezza, tutto intento a smuovere animi nella maniera più discreta e garbata, elegante e rurale. Una staticità artistica, la sua, che ha dimostrato tuttavia nel corso degli anni una capacità rara: la felice consapevolezza di trovare in lui una conferma, sempre. La piacevole sensazione che nonostante tutto, quando tutto è continuato ad andare avanti con fretta e smanie di traguardi, Tiziano Sgarbi (in arte Bob Corn) ha preferito rallentare il passo e seguire la coda da sempre più lontano.
"The Watermelon Dream" è l'ultimo tassello del suo sottile percorso cantautorale. E, lo dico con tutta la banalità e la poca professionalità di questa espressione, è un album bellissimo, in ognuno dei suoi venti minuti. Sette canzoni che godono della solita delicatezza, accostata questa volta ad una inaspettata cura tecnico-formale. L'attenzione dedicata alle strutture di queste canzoni è evidente, e dimostra finalmente un'attitudine compositiva difficile da non apprezzare, soprattutto trattandosi di un autore che, come dicevamo, non si è mai distinto per particolari doti sperimentali. Tralasciando il pezzo d'apertura, probabilmente quello più facile da incasellare negli schemi del cantautore, il resto del lavoro si distingue per una ricercatezza musicale in grado di soddisfare l'aspetto sensibile ed emotivo quanto quello più tecnico e stilistico. Splendide le soluzioni orchestrali in "Lost and found", con un lamento di archi ad accompagnare il verso malinconico del cantante, o le seconde voci, azzeccatissime, in "August rains Rhymes" e "Love turns around": nel primo caso chiamate a colorire in modo leggero, nel secondo a conferire autorità con dolci e violente esplosioni liriche. Scelte formali, insomma, che calcano con maggior decisione i confini neo-folk della canzone del modenese, conferendo ai pezzi una maturità ed un riconoscimento artistico più obiettivo e condivisibile.
Per il resto, Bob Corn è Bob Corn e lo conosci già: versi nostalgici, amori irrisolti, distanze mai colmate. Sorrisi, nonostante tutto. Parole silenziose, che fissano la lente sui particolari e su questi costruiscono chilometri di papiri idealistici. Perché se tutto si frantuma nei trambusti giornalieri e nelle nostre megalomanie quotidiane, lui percepisce l'antidoto al tempo nell'accortezza trasparente verso le piccole cose. La malinconia, l'allegria spicciola, la capacità liberatoria della scrittura. Bob Corn è tutto questo, già sai, e spendere altre parole sembra inutile. Ora mi svuoto le tasche e vado via. Com'era quella frase di Miller: «non ho soldi, né risorse, né speranze. Sono l'uomo più felice del mondo». Puoi ripetertela?
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