Una certa solennità marziale, intrappolata in “Since”, inaugura l’ascolto di questo disco gotico e “lento”, che fa della riproposizione post il suo orizzonte. Talvolta eccellenza, a tratti limite.
C’è una certa sghemba “ammucchiata”, nel codice della band, come se un James Hetfield si dibattesse tra il monolite Mogwai e lo slowcore, mettiamo, dei Codeine – vedi “Cameback From”, tra chitarre tremule e un inglese ancora un po’ acerbo. I Songs: Ohia, o anche Bill Callahan, vanno colti in “On Busting The Sound Barrier”, di suono antico e seppiato come un dagherrotipo.
“Peggy + The Houses” sembra il cuore mediano su cui è stato congegnato il lavoro, strategicamente più dinamica rispetto al resto – ricorda bellamente gli ultimi movimenti degli EDM, con salde radici nei 90.
È un disco dignitoso, con qualche vagito en avant, ma che per sua stessa natura preme sul margine estremo della referenzialità, avendo il genere raggiunto un esiziale limite semantico.
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