Un cantautore in stato di grazia. Sette sono gli album, sette sono le pietre che Cesare Basile scaglia nella pancia del diavolo per tenerlo a bada. Si nutre del succo proibito e dannato del blues, attinge al riscatto cercato dal folk e rinasce come la fenice dalle ceneri in nuova, sgargiante forma, più forte, come la vita che ha attraversato la morte.
L'ultimo capitolo sonoro del musicista siciliano è una tappa decisiva di un percorso di ricerca e progressiva, per quanto sempre imperfetta, illuminazione. Un progetto ambizioso fatto di carne e sangue, spirito e anima, dannazione e redenzione, timore e tremore, schiavitù e liberazioni. E' un'adrenalinica corsa verso il crepaccio, una musa ispirativa aspra e crudele che attraversa le pagine più importanti di questo racconto musicale: la Sicilia, terra rossa e indomita, che coltiva nel suo ventre il seme cattivo dell'uomo che divora i fiori della felicità perchè non riesce a liberarsi dal suo padrone.
I suoni sono mantrici, la materia è nera, come la fine di un pozzo ricoperto di catrame, che deve essere essere leccato a fondo per tentare la risalita. Ci sono tamburi bassi a cadenzare un ritmo ancestrale, archi e fiati strazianti, chitarra dannate e un incedere marziale proprio della musica popolare del Sud Italia che diventa spesso il principale canovaccio musicale. Il racconto di un potere marcio e brutale che divora le menti e i giovani cuori, Basile dà voce al blues degli schiavi italiani in epoca postmoderna, tra controllo totalitario, case popolari e le ultime briciole di qualsivoglia ideologia.
Tra poesia nera, apocalissi umane e la cultura di un popolo tutta da riarmare, il cantautore siciliano si conferma così autore raffinato e visionario, che non conosce pace nell'ispirazione nè tantomeno stasi creativa.
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