Nudo. Come fanno i poeti. Oltre le maiuscole e le virgolette. Oltre l'elettronica e gli orpelli. Nudo. Come il cuore, la volta che decise di camminare da solo. Mauro Ermanno Giovanardi è elegante chansonnier acrobata sul filo del romanticismo, interprete decadente, fragile e intenso capace di trasformarsi all'improvviso in folletto. Non hai mai cantato la sofferenza in sé, non l'ha resa manifesto, sublimandola invece in voce collettiva. Vestita di vento e di amori perduti, di vele stracciate e risate ubriache. Giovanardi canta noi tutti. Lo faceva prima nella forma La Crus, lo fa ancor più adesso in veste solitaria. Ora è davvero il cantante confidenziale che a differenza della tradizione legata ai crooners vuole anche gli archi nell'orchestra che lo accompagna. Ora è pienamente Giovanardi nel golfo mistico.
Comincia da lì. Tutti o quasi, in diretta o in differita su You Tube o in radio. Tutti lì o quasi davanti a quell'"Io Confesso", il singolo sul palco di Sanremo. A guardare Cesare Malfatti che ricama il suo giro di chitarra ad armonizzare la melodia. A guardare Giovanardi "Joe Crooner" in eleganza scura e sottile disegnare sul palco traiettorie improbabili di gambe e sguardi, strade immaginarie di un cuore che pulsa. Il Joe che "featta" i La Crus, nel senso di uno con(tro) uno, tutto come allora e in realtà come non mai prima. E con loro la potenza della soprano Barbara Vignudelli che appare come icona femminea e corale, linea d'arco in voce.
"Ho sognato troppo l'altra notte?" è l'album che lo fa coincidere con se stesso. Percorso in dieci passi che esalta la sua voglia di musica elegante e corale stile anni sessanta da vestire però in nuovo. Perché queste più che citazioni sono avanguardie della tradizione. I brani originali del disco rivelano testi che fanno l'amore con la parola, ci giocano per creare paesaggi umani intensi e mai banali. Le confessioni, il tempo dopo l'amore, le assenze, il sogno, i garofani neri, gli uomini delle stelle, tutto danza su una giostra di preziosa raffinatezza. Un tuffo nel passato? Nostalgia distillata? Critica al presente? Accucciarsi comodo nel solco della tradizione melodica italiana? No. Perché Giovanardi è semmai l'uomo degli omaggi, dei vestiti sonori indossati con eleganza perfetta e personalissima, anche laddove presi in prestito da altri artisti in forma di tributo musicale. Giovanardi è l'uomo della voce, non solo intesa come timbro speciale e riconoscibile - tocca corde profonde non solo metaforicamente - ma come cifra stilistica propria, sguardo suo sul mondo, tangibile o emotivo che sia, asfalto o pianto a seconda.
L'album però non guarda indietro. Guarda altrove. Come unire due epoche senza farne una sola. Due diverse idee di uomo e d'artista. Perché Giovanardi non scende mai nel diario autobiografico, nell'intimismo troppo personale per essere condivisibile. I brani originali dell'album sono storie credibili, partecipabili, mai cronache ma impressioni. La musica sottolinea i passaggi, li sostiene, li spinge. Gaber diceva che prima ci si sentiva "da una parte la personale fatica quotidiana e dall'altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita. Anche ora ci si sente come in due: da una parte l'uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall'altra il gabbiano senza più neanche l'intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito". Il sogno in questione riposa dentro gli occhi chiusi dell'immagine di copertina di questo album. L'uomo si adagia sul tempo, tempo relativo, tempo personale e di tutti allo stesso tempo, tempo-gioco da prendere in giro, in attesa che il gabbiano si decida a fare il suo mestiere. Il sogno sognato è proprio il gusto che fu, l'abito antico capace di vestire bene il presente e dargli nuove possibilità. Le infinite possibilità lacrusiane.
Il disco è figlio dell'approccio tipico di Giovanardi, artista che crede fortemente nel mischiare il sangue per vedere che accade. Un disco-casa che si apre agli ospiti. Ci sono i La Crus, Violante Placido, Cecilia Syria Cipressi, Tiziana Rosco, c'è il volto-non volto di Alex Cremonesi, ci sono Migliacci e Diamond con la loro fu "Se perdo anche te", ci sono Sonny Bono, Nancy Sinatra, Mario Coppola e tutto l'immaginario legato ai Corvi e Dalida con "Bang bang". E ancora Roberto Vernetti e Leziero Rescigno produttori, Fabio Gurian per gli arrangiamenti di archi e fiati, Marco Carusino per bassi, acustiche e chitarre elettriche. Arrangiamenti efficaci, clima retrò d'archi, duetti, fiati, twang-guitar, melodie d'impatto, ballate. Dieci cammei d'autore, tre cover e sette originali, che riportano nel presente il passato sonoro per strizzare l'occhio al futuro. Sì, perché questo disco non è nostalgico nelle intenzioni, è anzi assolutamente propositivo e ottimista. Ad esempio in "Neil Armstrong", ideale ultima traccia dell'album, si dice che "Può bastare un passo così piccolo / per lasciare un'orma sulle stelle…". In "Desìo (Il rumore del mondo)" l'amore diventa l'unico dio, con un "forse" che è tutta ironia. Non ci sono rancori ma solo chiarori. Il sipario c'è per essere strappato.
L'elettronica lascia il passo al rock-crooner. E questo approccio non ha bisogno di paladini. Se convince il pubblico non occorre difenderlo. Se non lo convince, a che servirebbero le difese? Bravo Joe. Il solco è tracciato. Continua a seminare.
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La recensione Ho sognato troppo l'altra notte? di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2011-03-07 00:00:00
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