"Yanez" è il quinto disco in studio di Davide Van De Sfroos, uno che passa da fenomeno ad artista di culto, a perfetto sconosciuto nel breve scorrere di pochi chilometri. All'ultimo Sanremo è stato accolto da molti come una sorta di infiltrato. Eppure la sua carriera è composta da dischi di tutto rispetto, che potranno non piacere o respingere per l'uso del dialetto, ma che mostrano un autore capace di creare un mondo immaginario che nulla ha da invidiare a tanta letteratura. Negli anni, infatti, Van De Sfroos ha messo a punto una capacità narrativa che ha davvero pochi rivali in Italia. Nei suoi pezzi racconta storie di personaggi minori, spesso emarginati, dei puri che non riescono a far fronte alla modernità e al progresso.
La bravura di Davide Bernasconi sta nell'evitare di dare giudizi: non mette da una parte il buono (i cari vecchi tempi) e dall'altra il cattivo (il crudele presente). Nelle sue canzoni pone queste due componenti una di fronte all'altra e le fa entrare in cortocircuito. Non si ha così l'esaltazione di un'epoca passata e dei suoi antiprotagonisti (contrabbandieri, balordi di paese, sbandati, ubriaconi), ma un vero e proprio racconto, che lascia in sospeso ogni giudizio: ovvio, si fa il tifo per i personaggi, ma questi non vengono mai trasformati in eroi o emblemi.
In questo modo, pur essendo molto legato al territorio e nonostante il dialetto, Van De Sfroos è tutto fuorché provinciale e le canzoni di questo disco sono lì a dimostrarlo per l'ennesima volta. Nel cantare dei punk di paese che hanno sul cruscotto le immagini di Padre Pio e dei Ramones, nel descrivere i ragazzi con i tatuaggi dei Maori e "la nostalgia dell'oratori" non c'è volontà di mitizzazione, ma semplice voglia di narrare. Una narrazione che non di rado ha spunti geniali: si pensi alla sanremese "Yanez", in cui si immaginano gli eroi di Salgari che trascorrono la vecchiaia in riviera, con Sandokan che si svacca in spiaggia con le mutande Billabong e finisce le serate cantando "Romagna mia". Il grande merito di Van De Sfroos sta nell'aver trovato un tono e un approccio che sono nazionalpopolari fino al midollo, ma che non si svendono per un applauso o un coro in più. La sua carriera lo dimostra: dopo i primi due dischi avrebbe potuto replicare all'infinito le formule musicali che gli avevano dato successo e che certo gli avrebbero potuto spalancare platee più ampie. Ha invece rinunciato a un folk celtico di facile presa, passando prima a un blues cupo ("Akuaduulza", 2005) e ora a un suono che sta tra il Dylan elettrico e lo Springsteen acustico. In quest'ottica, "Yanez" non è altro che l'ennesimo tassello di un immaginario sempre più definito e affollato, fatto di corriere e mojito, di polenta e Johnny Cash.
Un disco che non porta con sé alcuna rivoluzione, ma conferma le capacità del suo autore. Per questo, bollarlo come fenomeno regionale o come cantore della Lega sarebbe sbagliato e ingeneroso. Van De Sfroos sa scrivere e raccontare. E continua a farlo molto bene.
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