Vinicio Capossela l'ha definito la sua marina commedia e la definizione non potrebbe essere migliore. Non solo per il rimando marinaro, proprio per il collegamento con Dante. Non sto dicendo che il disco di Capossela valga le tre cantiche del poeta, ma i punti di contatto ci sono. Come la commedia divina, quella marina ha come obiettivo includere tutto e il contrario di tutto. Aspira a essere contenitore assoluto. Un disco pop per la sua essenza onnivora, capace di trarre ispirazione dalle fonti più disparate: dal libro di Giobbe della Bibbia a "In fondo al mar" della Sirenetta Disney, da Melville all'avanspettacolo Anni '30. Capossela ha deciso di creare un album a suo modo totalitario, nella sua volontà di non lasciare fuori nulla, di non tagliare niente, con il rischio di creare un'opera impenetrabile. Perché pur essendo onnivoro-pop, l'album è l'esatto contrario di pop inteso come accessibile. Rimanendo all'interno della metafora, più che essere una pozza accogliente, le diciannove canzoni sono un muro (d'acqua) che si rovescia sull'ascoltatore. È difficile lasciarsi cullare, il primo impatto è stordente. Si percepisce da subito la qualità, ma nel frattempo si boccheggia, storditi, in cerca di una via d'ingresso, di un passaggio facilitato. Fra tanti pezzi affascinanti e coinvolgenti, manca quello da KO istantaneo, in grado di tirarti dentro nel vivo della faccenda e permetterti poi di calarti in ogni curva della mente di Vinicio.
Se il valore del lavoro si avverte immediatamente, la vera grandezza di "Marinai, profeti e balene" arriva solo con il tempo, con gli ascolti. Il passaggio, il salto di qualità, lo fa la consapevolezza di dover abbandonare le categorie classiche che abbiamo in testa quando ascoltiamo un disco. "Marinai, profeti e balene" è un'opera totale, che va presa nel suo complesso e in cui bisogna lasciarsi andare, senza tentare di spezzettarla o di capirla per parti. Un po' come "Inland Empire" il film-monstre di David Lynch, talmente vasto da rendere lecito perdersi e persino annoiarsi, per poi essere risvegliati da sussulti improvvisi. Questo nuovo disco di Capossela funziona in modo simile. È un tutto che è più della somma delle singole canzoni, che pure sono belle e capaci di emozionare ("I fuochi fatui"), divertire ("Pryntyl"), caricare ("Job"), commuovere ("Le pleiadi"). Tra brani solenni e colmi di pathos ("Aedo", "Nostos"), si intrufolano gioielli più minimali e trattenuti che sono un marchio di fabbrica dell'autore ("Le sirene"). Se si ascoltano i singoli pezzi come semplici canzoni, però, si arriva alla fine del doppio disco stremati, ancora boccheggianti come all'inizio dell'ascolto. Se invece si riesce a scollegarsi dai singoli brani, all'improvviso un mondo si apre. E quel mondo è sterminato, ambizioso, pieno di sfaccettature.
"Marinai, profeti e balene" è un azzardo, è il rilancio che solo i più grandi hanno il coraggio di pensare. Figurarsi, poi, di farlo. Per questo aspetto, per la voglia (necessità?) di osare, il disco rimanda a "Creuza de Ma" di Fabrizio De André (altro lavoro che andava oltre l'idea base di disco e metteva il mare al centro del proprio discorso). È la sfida che il cantautore lancia a se stesso. Quella sfida Capossela l'ha accettata e l'ha vinta. Lo sguardo obliquo che indossa in copertina è rivolto agli ascoltatori: "voi, questa sfida, avete il coraggio di affrontarla?".
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