Uno magnifico suono disturbato, una scossa che rompe tutto e fa il vuoto attorno. Non si tratta del piacevole fastidio che scuote i pezzi di gente come i Nine Inch Nails. Qui ci sono pochi battiti industriali e le infiltrazioni elettroniche non sono in primo piano. Per fare vibrare i suoni il trio di Avellino si serve di strumenti tradizionali: una chitarra distortissima, un basso corposo e una batteria irrefrenabile. Quello che esce è uno stoner scuro ed esasperato, ossessivo.
Distorsioni polverose, spigoli noise e chitarroni belli potenti si mischiano a momenti decisamente più tranquilli dove si intravede anche una parvenza di melodia. Il nucleo duro e distorto è circondato da spazi di sperimentazione e aperture verso altri orizzonti sonori come quando, in “Gamino”, un’atmosfera cruda e metallica mostra nervature dub e si appoggia su una chitarra in levare. Talvolta in questo “genocidio al rallentatore” riecheggiano le formule sperimentate dai Tool anche se in una versione ridotta all’osso, una psichedelia scura ed essenziale che spesso esplode schegge di pura violenza sonora.
Questa musica potrebbe essere il sottofondo ideale di un road movie perverso, immaginatevi una colonna sonora alternativa a “Wild at Heart” di David Lynch o a “Doom Generation” di Gregg Araki. Dopo un’autoproduzione del genere restiamo in attesa di un disco più curato dal punto di vista estetico e degli arrangiamenti ma che mantenga lo stesso spirito selvaggio e incazzato.
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