Respirare, l'ossigeno che non è mai abbastanza, la ricerca affannosa di nuove strade. E poi? Poi si arriva col dribblare a lato i percorsi migliori, preferendo la lucentezza del cemento alle asperità dei sentieri fangosi. Parlare hic et nunc dei TIOGS è come parlare di chi, almeno in parte, ce l'ha fatta. Sono finiti a suonare tante volte in Europa, hanno fatto un tour in Cina e, in barba al provincialismo e ai complessi di inferiorità, sono riusciti ad aprirsi i dovuti scenari oltreconfine. Bravi, non fosse che qui da noi rimangono ancora un oggetto sconosciuto ai più. Questione di stile o, forse, di attitudine operaia – per definizione poco affascinante; una passione coltivata con silenzio e costanza nelle pianure modenesi. Il primo monito è che sarebbe un vero peccato continuare a farseli sfuggire.
Questo "Pure" è per loro la quadratura del cerchio. La meta ideale di un pilone del rugby che arrivato a fondo campo butta in quel pallone tutte le botte e i sudori di un'intera carriera, il raggiungimento dell'essenza perfetta, la sostanza che finalmente si sposa a dovere con la forma. Chi non ne ha seguito l'evoluzione, probabilmente non capirà la distanza, a tratti anche siderale, coi precedenti lavori. Sono lontani i tempi in cui si suonava con lo sguardo rivolto all'America, ai Karate di Geoff Farina o alle sacre dissonanze di Chicago. Ora c'è un suono che frulla assieme le influenze più disparate, dal math al post-rock, le ricopre di glassa sintetica e le rigetta vestendole di abiti completamente self-made. Se i pezzi del precedente "We build today", pur nella loro carica, abbozzavano nevrotiche linee rette, quelli di "Pure" sono autentiche schegge impazzite, tracciati obliqui dove le parti in gioco si confondono per poi mescolarsi e dare in pasto alla luce colori inaspettati. Prendete l'opener "You don't know Foreplay": inizia con chitarra e batteria che dettano una ritmica ossessiva alla Battles, entra la voce e diventa un pezzo in bilico tra tensioni emo e quella dannata circolarità del math che esplode nel ritornello, bridge con sample dritti al punto e poi ancora ritmiche quadrate e sfuriata noise sul finale. "G.B.'s deer hunting" risponde con gli stessi intenti: parte con le braccia tese ad accogliere l'incursione dei synth nel refrain, ripete lo schema due volte, si ferma di botto, percussioni tribali e il pezzo diventa inaspettatamente post-rock.
È impressionante l'apparente facilità con la quale riescono puntualmente a deviare direzione sul più bello, ed è un peccato che non tutti i brani riescano a piazzare completamente l'affondo e essere incisivi allo stesso modo. O forse è qualcosa di intimamente connaturato al fatto che il vero elemento di rottura dell'intero album sia l'incedere marziale dei beat, che dettano il tempo in metà dei pezzi. Qui la mano di Giovanni Ferliga degli Aucan in fase di registrazione si sente parecchio, e a volte va ad arricchire il brano di sfumature nuove ("Confusion is pleasure", che a metà affonda in dei synth degni dei migliori Xiu Xiu, smussati da un fragore melanconico che rimbomba sullo sfondo), altre volte però finisce con lo snaturarne eccessivamente la forma ("Upcoming poets", che suona troppo compressa e non esplode mai come dovrebbe). C'è bisogno di prendere maggior confidenza coi nuovi elementi introdotti, plasmare più fondo la materia elettronica evitando di esserne troppo plasmati. Ma è un particolare che la dimensione live provvederà probabilmente a migliorare.
Aldilà dei dettagli, rimane indubbio il fatto che con "Pure" i Three In One Gentleman Suit siano riusciti ad andare a sedere su di un altro piano. Hanno rimesso in discussione dei canoni che avevano precedentemente stilizzato e ne hanno creato altri. Sono originali nella capacità di coniugare elementi che appaiono di per sé già sentiti, canalizzandoli in nuove dinamiche che hanno il dono dell'impatto, alternando violenza e profondità melodica. Il consiglio è sempre quello: sarebbe un peccato farseli ancora una volta sfuggire.
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