Il cantautore rock con la chitarra elettrica è un genere chiaro e definito, che in Italia da anni è schiacciato dalla faida tra un modenese e un reggiano. E non se ne esce. L'ossigeno lo assorbono tutto loro e i loro fan e hai voglia a provare a emergere in quel settore.
Missione suicida in partenza? Probabile, ma non per questo non può portare a risultati più che interessanti. Perché questo è "Waterloo": un gran bel disco. Si ritaglia un suo spazio all'interno di un genere e di un recinto ben definito e non fa nulla per mettere la testa fuori, ma allo stesso tempo dimostra una credibilità tale da essere inattaccabile.
Il terzo lavoro di Fabrizio Coppola è quella che i manuali di frasi fatte per recensori definirebbero "una prova matura di songwriting". Le undici tracce di questo album sono un corpo solido, che raggiungono l'obiettivo sia nei passaggi più concentrati sul tempo presente, sia in quelli più ripiegati sull'autore. Il primo caso è quello di "Respirare, lavorare", il secondo di "La ballata dell'uomoformica". In entrambe le tracce, Coppola riesce a impastare bene musica e voce, al punto da non capire chi sia al servizio di chi.
"Waterloo" porta così avanti con forza il discorso già iniziato nell'ep "La stupidità". Da lì arrivano il brano di apertura e "L'altalena", forse il picco emotivo di "Waterloo", ma è tutto lo stile ad essere in linea con quanto fatto ascoltare in quel lavoro. Il tratto più importante è la capacità di Coppola di controllare ogni aspetto della sua musica e di avere un'invidiabile senso della misura, che gli permette di tirare a sé il tutto quando qualcosa scricchiola e di fargli spiccare il volo nei momenti migliori. Perché si è scelto un genere difficile, Fabrizio Coppola. Ma in quel genere si muove con grande abilità.
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