"one two three four…” Giusto il tempo di un soffio, una flebile tensione, poi Fabrizio Cammarata prende la chitarra in mano e inizia a raccontare. Racconta di lui che coltiva la sua interminabile attesa per lei che, come sempre succede nelle migliori storie, non c'è, scappata lontano da casa. I mesi passano, i treni corrono, ma non c'è astio, semmai speranza. La canzone è di quelle da sole in faccia, la domenica tra le lenzuola e il rumore del caffè in cucina. Un acquerello piccolo piccolo. Poi parte “Alone & Alive” e quasi ti dispiace che il candore di prima sia diventato più acceso; c'è lo sguardo più maturo, l'uomo che ha camminato attorno al baratro. Da un universo all'altro nel giro di pochi minuti. Di norma i cantautori tendono a compiacersi nello spazio di piccole emozioni, Fabrizio Cammarata in questo è una piacevole sorpresa.
Il titolo poi è esplicativo: “Rooms”, una raccolta di stanze. Catturate magari negli attimi dove Fabrizio vedeva più a fondo la luce dell'ispirazione. Ti schiude poco a poco un angolo diverso, dalla camera da letto al profilo maestoso di Monte Pellegrino, riesce a farti toccare con mano certe cose che sono essenziali per entrare nel tessuto della canzone (la madeleine che si apre col rumore della neve in “Aberdeen Lane”), fa tanti conti con la sua soggettività, te li porta sul tavolo e ti spiega un po' tutto il senso che gira attorno al significato di andare, perdere e cercarsi.
È anche un disco di frontiera, in questo senso. Ci sono tanti luoghi, tante città, un percorso zingaro che si porta addosso il profumo del mediterraneo. La scelta di cambiare nome e lasciare The Second Grace sullo sfondo è funzionale a questo mettersi in gioco, al rischiare in prima persona. Chi aspettava un disco da 'new acoustic movement', sulle orme del precedente, pertanto rimarrà deluso. Non chiamatela delicatezza soprattutto. C'è una chitarra acustica che in punta di piedi apre ogni pezzo, ma non rimane mai fine a se stessa, si arricchisce, schiude fino in fondo il suo respiro. Gli orizzonti africani di “Myriam” (placido ricordo dell'eterna voce della Makeba) che pare si adagino su dei tramonti rubati alla savana, o i tribalismi che si mischiano al roots rock di “Pole Kitoto”, la beatlesiana “Me and the rain”.
È un disco che aspira a tanto, c'è la produzione di JD Foster e c'è gente come i Calexico che ci suona dentro. Nomi di prim'ordine. Peccato che a volte, nella perizia del descrivere, si perda nei suoi giri. In certi momenti l'avrei preferito piu solido, magari capace di piazzarti anche la canzone che stampa il marchio piu a fondo, quella che ti fa raggiungere l'equilibrio perfetto, che ti incanala nella strada di quelli bravi per davvero. Di contro ci sono pero dieci tracce che scorrono senza nemmeno un'incertezza, dolci, magiche, epiche nella loro intimità. Vi ripagherà dell'ascolto.
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