Dopo un disco e due ep, gli Amycanbe producono “Mountain Whales”, uscito ormai ad ottobre dall’etichetta inglese Open Productions con artwork raffinato dell’illustratore/writer Dem.
Non che le opere precedenti degli Amycanbe, gruppo di Cervia formato da Francesca Amati (voce, strumenti), Marco Trinchillo (pianoforte, batteria, chitarra elettrica), Mattia Mercuriali, (chitarra elettrica, sintetizzatori, basso), Paolo Granari (fiati, basso), Glauco Slavo (chitarra elettrica), fossero da meno: la voce di Francesca con la sua forza emotiva è da sempre un passaggio verso mondi paralleli incantevoli, l’impianto sonoro della band è da sempre vivo, di un folk-rock ricco di screziature che è sempre suonato piacevole.
Ma con “Mountain Whales” gli Amycanbe si mettono a fuoco: meno fluttuazioni, meno annacquamenti. Si rimane lo stesso nell’elemento dell’acqua, ma i movimenti per raggiungere i vascelli sott’acqua stavolta sono perfetti e si riesce a godere di tutto lo spettacolo. La band mette un’attenzione capillare negli arrangiamenti per ogni singola sequenza: trame d’autore disegnate ad ago e filo, punto per punto, come se ogni passo fosse nella direzione giusta.
Le canzoni sono tutte nitide e riuscite; sono come i cerchi, senza spigoli, che si staccano dalla terra e brillano come pianeti infuocati. Portano fino alla cascata ghiacciata nel bosco per perdersi, scalare il promontorio e poi cercarsi.
C’è della brina che ghiaccia nella voce di Francesca Amati, c’è la brina, il rum e lo spessore della coperta che attutisce i battiti.
Sono tante le schegge del caleidoscopio Amycanbe: mi è sembrato di sentire il fervore disperato di “Yellow” dei Coldplay, i grandi paesaggi sterminati da folk americano, certi passi soul alla Starsailor nella bocca della balena in cui fluisce l’acqua gelata dei mari del nord; profili tratteggiati alla Portishead, Air, Emiliana Torrini. Un magma che fonde insieme la sobrietà nostalgica del folk, la malinconia appannata dello slowcore, il calore alcolico del soul, la suggestività del post-rock, la scioltezza del pop.
“Mountain Whales” e le sue canzoni – in particolare, “My love”, “Truth Be Told”, “What If”, “Buffalos”, “Your Universe”, “Different”, “One Eye Two Eyes A Mouth” - sono belle da ascoltare, come leggere un libro o un fumetto figo: avviene quella reazione chimica per cui gli accordi trasformano il tempo in campi di luce, emozione e, infine, vita.
Il disco mi risveglia qualcosa di simile all’emozione incondizionata da amici del liceo, con la tuta in panno sintetico, l’atletica, l’incompresa disciplina e il buio fuori dalle palestre, i motori accesi per partire, il cielo che si è ingrandito è diventato freddo e luccica. Parlare al buio. Uscire di notte, con la luce che fa la neve. Rimanere soli con il respiro e il nero profondo.
C’è un racconto breve che s’intitola “Sonno diurno” (Abraham B. Yehoshua, 1959) che termina con la domanda “Verranno i sogni?” rimuginata da un personaggio preoccupato del contrario. Mi sembra che “Mountain Whales” stia proprio dalla sua parte.
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