Intona un canto apocalittico, proiettato in un passato da riscoprire, saldo nella tradizione e con poca voglia di rischiare.
C’è una sostanza da crooner, alla base della vocalità di Phil Reynolds (nom de plum evocativo, e quasi multiple name, a considerare la quantità di omonimi sul web), e non soltanto per la qualità timbrica, ma anche e soprattutto nell’attitudine a raccontare e fornire una precisa estetica al filo narrativo. Così, il retro-blues dalle mimiche lo-fi dell’opener “Lay Down” è già manifesto e tensione tra un passato ancestrale e un’attualità della ri-scoperta (a cavallo tra Smog e gloriosi Captain Beefheart). L’America desolata compare in uno sprazzo prewar, nel folk seppiato di “My Poor Land”, yankee a go go e spirito da pioniere. “The Anchor” rivela nella sua reiteratività l’amore per il cantautorato riverso su stesso (o intimista, che dir si voglia), molto in voga e profondamente indagato in ogni più intima piega, nell’ultima decade.
Phil Reynolds rispolvera un’America patriottica, e per questo va considerato come un prodigio, gliene va dato atto, di dislocazione geografica - siamo pur sempre nel (maledetto) bel paese. Nondimeno, la china della clonazione risulta molto vicina, per un progetto valido, sì, ma totalmente piegato al genere.
Per chi crede nei paradigmi.
---
La recensione S/t di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2011-12-13 00:00:00
COMMENTI (1)
posso credere anche e talvolta nei paradigmi, ma non credo che il sig.Reynolds riuscirebbe a vivere suonando sta roba qui' in un corridoio di una stazione di metro'.......