C’è una sostanza da crooner, alla base della vocalità di Phil Reynolds (nom de plum evocativo, e quasi multiple name, a considerare la quantità di omonimi sul web), e non soltanto per la qualità timbrica, ma anche e soprattutto nell’attitudine a raccontare e fornire una precisa estetica al filo narrativo. Così, il retro-blues dalle mimiche lo-fi dell’opener “Lay Down” è già manifesto e tensione tra un passato ancestrale e un’attualità della ri-scoperta (a cavallo tra Smog e gloriosi Captain Beefheart). L’America desolata compare in uno sprazzo prewar, nel folk seppiato di “My Poor Land”, yankee a go go e spirito da pioniere. “The Anchor” rivela nella sua reiteratività l’amore per il cantautorato riverso su stesso (o intimista, che dir si voglia), molto in voga e profondamente indagato in ogni più intima piega, nell’ultima decade.
Phil Reynolds rispolvera un’America patriottica, e per questo va considerato come un prodigio, gliene va dato atto, di dislocazione geografica - siamo pur sempre nel (maledetto) bel paese. Nondimeno, la china della clonazione risulta molto vicina, per un progetto valido, sì, ma totalmente piegato al genere.
Per chi crede nei paradigmi.
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